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Sguardi Attraverso | Testimonianza di un libero cittadino

Storia di Arturo

Mi chiamo Arturo, ho 57 anni, due figli, sono divorziato. Ho sempre lavorato nel campo dell’informatica prima come consulente, poi come piccolo imprenditore, adesso ancora come consulente. Ultimamente anch’io ho scelto di limitare il tempo del lavoro; quindi adesso faccio un part-time che mi lascia un sacco di tempo libero e la vita è cambiata. E’ cambiata, è cambiata di parecchio.

Per quanto riguarda il progetto Verziano, ci sono ormai da sette anni, dal 2014, dall’inizio del 2014, però ne parleremo…
Prima del progetto, ho conosciuto Giulia e il suo gruppo, nel senso che un’amica mi ha detto: ”Prova anche tu queste lezioni di danza, guarda, sono interessanti, sono qualcosa di un po’ diverso”. In quel periodo avevo voglia di fare cose un po’ al di fuori di quello che è il mio ambiente diciamo abituale, e quindi ho provato.
Era la fine del 2013 credo, e sono capitato a una di queste lezioni di danza di Giulia e la cosa mi è piaciuta molto.
Il discorso Verziano è nato un po’ collegato a questo, perché Giulia proponeva come esito finale del corso, come percorso di questo suo andare avanti, il fatto di entrare in carcere, di conoscere i detenuti e di fare questo spettacolo alla fine. All’inizio la cosa onestamente mi ha spaventato molto, perché c’erano i detenuti; “cosa c’entro io con i carcerati!”; perciò ero molto diffidente.
Poi invece, ripensandoci ho detto:”Perché no?”, e quindi ho iniziato.
Come spesso accade a queste lezioni, uno dice: ”Sì, sì, io partecipo a tutte le lezioni, però non farò mai lo spettacolo finale; figurati se vado sul palcoscenico!”. E poi alla fine ci vanno tutti sul palcoscenico!
Ho provato a iniziare molto curioso, dicevo, anche molto diffidente, a partecipare a uno di questi incontri in carcere e la cosa devo dire che invece mi ha subito fatto un bell’effetto, una bella impressione: cioè, il fatto di partecipare a una cosa molto distante da quello che potrebbe essere il tuo sentire comune, quello a cui non hai mai pensato nella vita. Mai e poi mai avrei pensato di fare una cosa di quel genere; invece non c’è niente di strano: ci si incontra tra persone, persone che in questo momento stanno vivendo un tipo particolare di esperienza e con le quali ci si trova a interagire in modo… non dico normale, perché non c’è niente di normale nella vita in carcere. Con qualcosa però che assomiglia abbastanza alla normalità; in questo caso la danza che unisce e che fa da collante un po’ a tutto questo.
Oltre al discorso danza, c’è proprio anche il rapporto personale. Già il fatto di essere lì insieme e danzare, implica un rapporto personale abbastanza forte, anche se limitato a un particolare aspetto e a un certo ambito.

Non so se c’è sempre una motivazione profonda “per fare delle cose”.
La prima volta che sono entrato in carcere, non so se è proprio la prima, ma è quella che mi viene in mente ora: si arriva al parcheggio, si suona, ti aprono e si entra nell’atrio. La prima volta ci hanno fatto annusare dai cani antidroga. Ci hanno fatto firmare tanti documenti: una cosa burocratica abbastanza pesante.
Poi questi corridoi che si attraversano, ogni “tot” c’è un cancello di ferro con delle chiavi enormi, delle chiavi che sembrano quelle delle fiabe, dell’orco; queste chiavi gigantesche, clack, clack. Ci sono anche i cancelli elettrici, non soltanto così.
Dentro non è che sia così male Verziano, perché a parte tutte queste cose è come una scuola media, un po’ più brutta di una scuola media normale, perché abbiamo delle scuole medie probabilmente non bellissime o perlomeno quelle che ho visto io. E poi c’era la palestra. Siamo entrati in questa palestra, abbiamo aspettato un po’, sono arrivati i detenuti, ci siamo presentati.
Conoscere queste persone, c’è un poco di emozione, perché tu hai in testa una domanda: ”Ma questa gente che è in prigione, chissà che cosa ha fatto, chissà com’è”.
Mi era già capitato di conoscere, di avere esperienza con persone che erano state in prigione, magari che conoscevo o miei amici, però lì proprio entrare, entrare all’interno del carcere, in carcere, è una cosa che inizialmente mi faceva un po’ di paura. Poi invece no, perché ti trovi, sei lì a parlare del progetto, a danzare, a fare cose.
Tutti sono lì per questo tipo di motivo. Tutti vogliono fare questo tipo di cose, quindi questo ti unisce.

Prima di tutto dobbiamo dire che cos’è per me la danza, perché non mi sembra di essere un classico danzatore, diciamo tipico.
Il discorso danza forse lo avevo nell’anticamera del cervello, ma molto nella soffitta del cervello. Forse ce l’avevo come una cosa che tutto sommato mi sarebbe piaciuto vedere, ma che non avevo mai avuto né occasione né coraggio di provare.
Da questo punto di vista per me la danza è un lasciarsi andare al di là di quelle che sono le costruzioni che hai fatto su di te, piuttosto di come ti sei sempre visto. Utilizzare questo strumento come linguaggio per scambiare, per avere qualche tipo di relazione con un’altra persona come per esempio all’interno del carcere, è una cosa che sicuramente aiuta.
Ho avuto da sempre questa ritrosia al contatto fisico, che nel mio caso era quasi una sorta di paura, di diffidenza. E invece sei lì per questo, quindi devi superare qualunque tipo di pregiudizio o dubbi nel contatto con l’altra persona; sei lì per danzare con qualcuno.
Nella danza che facciamo a volte lo spettacolo finale era basato su una coreografia fissa, precisa, ma il lavoro che facevamo in carcere non verteva solo sullo studio di questa coreografia. Giulia ha sempre messo l’accento sul discorso di una danza più libera, di improvvisazione, di micro composizione istantanea.
I primi due, tre spettacoli che abbiamo fatto avevano una forma precisa che poi, nel corso del tempo è andata diluendosi. L’ultimo o gli ultimi due spettacoli erano basati quasi del tutto sull’improvvisazione. Nel corso dell’anno ci eravamo studiati una serie di parole, vocaboli, come se la danza fosse un dialogo, di forme che poi in qualche modo andavamo a mettere in sequenza, ad eseguire, nel corso dello spettacolo; avevamo il nostro bagaglio, il nostro bagaglio di possibilità che si metteva in atto a seconda di come giravano le cose. Io mi trovo più a mio agio con un discorso più fissato; non sono un grande improvvisatore, però anche l’improvvisazione è molto interessante.

Non sono certo la persona più indicata per parlare di danza ma, per mia esperienza, nella danza non ho mai trovato “violenza”.
Ci sono momenti di danza più calma, più riflessiva, più dolce. Può anche uscire la rabbia che può dare origine a dei movimenti con una dinamica più esasperata, però stiamo sempre parlando di rappresentazione di qualcosa. Muoversi in modo violento non vuol dire essere violenti.
Mi sembra, che il fatto di danzare insieme a qualcuno, sia esattamente l’opposto della violenza.
A volte danzare con una persona ti porta a conoscere, o a intuire, qualcosa di profondo su di lei, ma non è questo lo scopo principale per cui danziamo.
Quello che facciamo, la danza, è qualcosa di spontaneo, che ti unisce nel creare qualcosa che è diverso da te o dall’altro.
Può esserci anche da parte mia o da parte dell’altra persona il fatto che uno esprima dei sentimenti dolorosi o anche la rabbia nei confronti di qualcosa; però la gente che danza insieme è gente che danza insieme, quindi sta condividendo qualcosa.
E’ un girotondo. Poi va be’…, siamo persone. C’è quello che ti è più simpatico qualcun altro meno ma noi siamo lì per uno scopo. E anche i detenuti, i ragazzi del carcere sono lì per quello. Poi magari lì cercano anche qualche altra cosa, una scusa per vedersi, per incontrarsi. Il fatto che sei lì a fare danza vuol dire che è quello che vuoi fare, che vuoi fare perlomeno soprattutto quello, anche se non è l’unico motivo per cui sei lì. Quindi ci provi.
Che cosa mi aspettavo di incontrare da questo percorso?…Niente, nel senso che non avevo aspettative, non avevo idea di quello che avrei incontrato. Avevo molta curiosità. Volevo un po’ uscire dal solito Arturo che faceva le solite cose, questo sì. Ho incontrato però l’esperienza della danza, ripeto, io non sono un danzatore, però mi piace, mi diverto molto, e mi diverto molto a farlo.
Poi sono venuto a contatto con un mondo col quale difficilmente avrei potuto venire a contatto, un mondo con persone che hanno delle esigenze differenti; stiamo parlando di persone che in questo momento stanno vivendo un discorso di limitazione molto forte, che hanno un certo tipo di vissuto, di passato.
La maggior parte di noi, io per principio, non ha interesse a sapere perché una persona si trova lì.
E se anche c’è la curiosità di sapere, la curiosità la si prende a bastonate. Chi è in carcere ha evidentemente commesso degli errori che lo hanno portato a essere lì.
Nessuno lo nega. Tutti quanti abbiamo commesso o commettiamo degli errori più o meno gravi e…quindi…
Ho delle grosse difficoltà a pensare a me e al fatto che io possa essere cambiato per questa esperienza. C’è da dire che sicuramente sono sempre io, ma mi sono accorto anche con un certo stupore che sono passato attraverso un’esperienza per me molto particolare, vivendola in modo molto sereno.
Non trovo le parole per esprimere la cosa, non trovo neanche parole semplici. Il discorso è questo: non avrei mai pensato, prima di iniziare questa esperienza, che avrei potuto farla; cioè, per come mi vedevo prima di iniziare, era una cosa completamente al di fuori delle mie possibilità…una cosa che non era assolutamente nelle mie corde. Invece non è vero, poteva esserlo. E lo è stato. Sicuramente è una bella soddisfazione. In modo molto egoistico devo dire che mi ha gratificato parecchio. Mettiamola così: sono più contento! Forse è troppo semplice metterla così, però sto meglio, anche con me stesso. Per esempio, a volte arrivo lì “gnecco”; faccio danza e mi passa.
Poi il corpo di ognuno ha dei limiti; c’è chi ne ha di più, chi meno. Qualche limite ce l’abbiamo tutti, però, cosa vuol dire? Mi sono sentito parte di un’opera artistica e ho sentito di dare anche un contributo piccolo, molto piccolo, ma è molto bello il fatto di sentire di riuscire a dare questo contributo. Mi sento parte di un’opera artistica con una valenza un po’ passiva, nel momento in cui abbiamo Giulia o Valentina o qualcuno diciamo, che orchestra, che ha la regia su questa cosa: io faccio, io partecipo a quest’opera secondo le direttive.

Però non è soltanto questo, anche se già per me è una grande cosa.
Il fatto di poter partecipare al Progetto Verziano è una cosa che mi ha dato un grande piacere, oltre al fatto di star meglio. Siamo riusciti, ciascuno di noi è riuscito, chi più chi meno, a metterci un pezzettino del suo.
Penso di essere una persona piuttosto narcisista, parecchio narcisista. Tendo a autolimitarmi se riesco, però delle volte… Un po’ di narcisismo sì, ci vuole per forza. Dare a se stessi, è la prima cosa che abbiamo: noi stessi; poi ci sono anche tutti gli altri.
Debbo dire che il gruppo di Compagnia Lyria, nel quale si sono avvicendate un sacco di persone; ci sono state per uno, due anni, oppure continuano a esserci, è un gruppo nel quale ci si sente molto bene. E’ un gruppo dove si viene accolti.

 

Anno 2021 | Progetto Verziano 11^ edizione
Raccoglitrice di storie: Monica Bertelli

Circolo di scrittura e cultura autobiografica di Brescia
LUA Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari

La rubrica Sguardi attraverso è creata nell’ambito del Progetto Verziano 11^ edizione, realizzato da Compagnia Lyria e Ministero di Giustizia Casa di Reclusione Verziano Brescia, grazie al contributo di Comune di Brescia, Provincia di Brescia, Fondazione Comunità Bresciana, Ordine degli Avvocati di Brescia, Centrale del Latte di Brescia e in collaborazione con LABA Libera Accademia Belle Arti, LUA Libera Università Anghiari-Circolo di Brescia, Palazzo Caprioli, APS Libertà@Progresso e Istituto Lunardi. Gode del patrocinio di Fondazione ASM, AIIMF Associazione Italiana Insegnanti Metodo Feldenkrais e Consigliera di Parità della Provincia di Brescia.


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