Skip to main content

Sguardi Attraverso| Testimonianza della Direttrice della Casa di Reclusione Verziano Brescia D.ssa Francesca Paola Lucrezi

Un lavoro di ragione e di passione

Quasi per caso

Mi chiamo Francesca Paola Lucrezi e sono la direttrice della Casa di Reclusione di Verziano.
La casa di reclusione prende il nome dalla via Verziano che è parte del quartiere Fornaci del Comune di Brescia. Un paesaggio rurale circonda la casa circondariale. Fornaci è un borgo di origine contadina che pur modernizzato, non ha perduto i suoi tratti distintivi. La frazione, situata a sud della città, sulla strada per Quinzano e Cremona, è così chiamata per la presenza di antiche fornaci nate su un terreno particolarmente argilloso, grazie ai sedimenti portati dalle acque del Garza.

Sono arrivata a ricoprire il ruolo di Direttrice per caso. Appena aver conseguito la laurea in giurisprudenza avevo iniziato a lavorare come apprendista in uno studio legale e contemporaneamente continuavo a studiare per prepararmi ai diversi concorsi pubblici. Partecipai a diversi concorsi e li superai; tra questi quello di Collaboratore di istituto penitenziario, come, in quegli anni, veniva definito il ruolo privo di una nomenclatura precisa. Avevo 27 anni. Quindi mi trovo a vincere il concorso e mi dissi “Sì iniziamo questa avventura”. Assunsi il ruolo di vicedirettrice dell’istituto penitenziario.

Fui assegnata a Verziano ma la direzione comprendeva anche la casa circondariale di Canton Mombello. Era il 1997.

Ricordo il mio entusiasmo e curiosità degli inizi. Una giovane donna con il desiderio di mettersi al lavoro. L’impatto con il contesto non fu semplice, la realtà era complessa, ma non piegò il mio desiderio di assumere nella pienezza questa professione.

Giorno dopo giorno, se guardo il tratto di strada da me percorso, ho costruito il mio lavoro facendo tesoro dell’esperienza quotidiana. Mi sono misurata con tante situazioni molto diverse fra loro e le problematiche che esse comportavano; dalle più semplici a quelle più complesse. Dalla gestione di un’organizzazione alla dimensione di un confronto costante con esperienze umane le più diverse. Se questo lavoro è arrivato grazie ad un concorso, quindi per caso, posso dire di averlo poi scelto nella pienezza di una personale consapevolezza. A 25 anni di distanza da quella prima volta, se guardo a questa esperienza, nel panorama delle professioni che avrei potuto intraprendere come laureata in giurisprudenza, vedo l’unicità che lo contraddistingue. Un lavoro che arricchisce quotidianamente; in 25 anni non c’è stato un solo giorno uguale a quello precedente o successivo perché le situazioni soggettive, le persone con cui si entra in relazione, sia dal punto di vista professionale con dipendenti e collaboratori, sia dal punto di vista delle persone in custodia, sono singole umanità verso le quali è necessario costruire modalità relazioni distinte. Anche il contesto storico, sociale e politico si riflette precisamente in un ambiente come questa istituzione. Questa condizione risulta un arricchimento costante. L’approccio che mi ha guidato è di essere entrata con molta cautela, con gradualità, con tantissima umiltà. È questa un’attività per cui la preparazione che avevo maturato in università, i numerosi corsi di specializzazione accumulati, non sembrava essere abbastanza. Entra in gioco una postura personale e si misura con la propria capacità di portare costantemente ad un equilibrio un sistema molto molto complesso dove al suo interno agiscono, gestiscono e partecipano una pluralità di persone con ruoli diversi più o meno istituzionali, collaborazioni con il territorio. Un paesaggio plurale dove l’esperienza che si matura sul campo e la capacità di tenere insieme tale molteplice diversificato è, a mio parere, l’aspetto professionale fondamentale.

Il carcere e il territorio riescono a incontrarsi

Quando nel 1997 ho iniziato a lavorare, la realtà era molto diversa, anche rispetto all’ingresso della comunità esterna all’interno del carcere. Non perché Brescia non fosse già allora un territorio disponibile a collaborare. Anzi il terreno era già stato sollecitato in tal senso. Il Tribunale di Sorveglianza di Brescia, nella persona dell’allora Presidente Dr. Zappa, ha costruito le basi sulle quali noi ancora oggi procediamo. Una pietra miliare nel nostro contesto che ha aperto vie importanti. Poi l’amministrazione penitenziaria che gradualmente ha aperto al territorio e sono iniziate collaborazioni più proficue con progetti diversi e innovativi. Io fin da subito, quando ho iniziato a mettere bene a fuoco cosa stavo facendo e dove, ho sempre ritenuto che l’apertura di questa istituzione al mondo circostante fosse necessaria, obbligata. Non aveva alcun senso intendere il suo ruolo solo come vigilanza e custodia di persone che non hanno libertà. Un concetto che anch’io stessa non avrei mai potuto accettare. Pensare al carcere solo come vigilanza e custodia non era nemmeno nella mia visione di significato ed operativa. Per fortuna sono arrivata in un territorio come quello bresciano e le occasioni si sono succedute sempre di più.

Il progetto proposto e poi condotto da Compagnia Lyria a Verziano nasce nel 2010. Un cammino che nasce anche grazie a chi mi aveva preceduto nella direzione di questi istituti in particolare di Verziano che, in quegli anni, era separato dalla casa circondariale di Canton Mombello. Una realtà di reclusione, quella di Verziano, diversa dalla casa circondariale, con altre esigenze, con un’altra vocazione.

La casa di reclusione di Verziano, sin da quando è stata aperta nel 1987, in particolare, ha sempre visto un regime di totale apertura delle stanze detentive cosa che, all’epoca, non avveniva in nessun altro istituto in Italia. Quindi sicuramente, all’inizio, anche un po’ di preoccupazione rispetto alla capacità di reggere questo imprinting di continua innovazione e sperimentazione che credo sia proprio la caratteristica e la natura di questo istituto. Timore anche rispetto alla mia capacità di mettere a frutto la necessaria fantasia per pensare, per ideare progetti nuovi che corrispondessero a quella che era la missione istituzionale. Sorprendentemente si è rivelato molto più semplice. Ci sono stati anni bellissimi; in particolare dal 2010 al 2015 abbiamo avviato progetti sperimentali che poi sono stati anche trasferiti in altri istituti come esempio di buone prassi. Il progetto di danza con Compagnia Lyria è uno di questi ed ha maturato ben 12 anni di esperienza.

Tutto questo è stato estremamente stimolante. Per noi operatori e credo anche per chi, nel mondo del volontariato e del terzo settore, si interfacciava con noi e sicuramente proficuo sia per i detenuti che per i cittadini che hanno partecipato alle attività e che hanno avuto l’occasione di entrare in questa istituzione totale di cui spesso si dice tanto, che si giudica tanto, senza averne una diretta conoscenza.
Progetti fruttuosi rispetto al pregiudizio poiché solo conoscendo la realtà, incontrandola da vicino è possibile farsi una opinione personale. Sono convinta di una cosa: le nuove generazioni attraverso la scuola, dovrebbero essere accompagnate a conoscere da vicino questa nostra realtà proprio per smascherare i preconcetti che ruotano attorno all’istituzione carceraria e approfondire la conoscenza di questo mondo complesso. Finché parliamo noi addetti ai lavori spesso non riusciamo ad uscire da quella sorta di autoreferenzialità che in qualche maniera ci portiamo dietro. Quanto più si riesce a contaminare, a creare scambio, gettare semi che poi ciascuno può far germogliare dal punto di vista culturale, tanto più può maturare una nuova idea di carcere.

La danza a Verziano

Danzare, è lottare contro tutto ciò che ci trattiene,
tutto ciò che ci affonda, tutto ciò che pesa e appesantisce,
è scoprire con il proprio corpo l’essenza,
l’anima della vita, è entrare in contatto fisico con la libertà
(Jean-Louis Barrault)

Amo la danza come arte e come disciplina e, nelle mie esperienze personali, ho potuto comprendere tutti i benefici della danza intesa come disciplina. Introdurre all’interno di un istituto penitenziario tale disciplina non è impresa semplice per tanti motivi. In particolare la proposta di Compagnia Lyria che non è di immediata lettura; è una attività di danza che va vissuta, interpretata, capita per poi essere restituita al pubblico.

Inoltre l’umanità detenuta è varia sia dal punto di vista anagrafico, sia da un punto di vista culturale, delle esperienze e anche delle condizioni fisiche rispetto ad una prestazione che coinvolge propriamente il corpo. Questa forse era stata la mia unica preoccupazione che avevo partecipato a Giulia Gussago nel nostro primo incontro. Mi piacque la risposta che mi diede, facendomi intendere che la sua esperienza aveva coinvolto persone anche con disabilità motorie e che tuttavia danzavano. Capii che mi trovavo davanti la persona giusta per iniziare un nuovo progetto che non fosse estemporaneo e quindi fine a sé stesso ma che ci fosse la voglia, la volontà e l’idea di affrontare tale disciplina con un approccio profondo ed educativo da svilupparsi nel tempo. La danza, in questo caso, diventava uno strumento, anche per i detenuti, per analizzare sé stessi nel qui e nel dove.

Il carcere è un luogo fisico che rappresenta anche un non luogo. Un posto dove le persone vengono ristrette contro la loro volontà per esecuzione di un provvedimento giudiziario. Lo spazio non è vissuto ma è subìto; analogamente il tempo diventa una bolla in cui le persone recluse vengono immesse e con cui devono imparare a prendere contatto. I detenuti e le detenute hanno una sfida da assumere che è provare a modificare il rapporto sia con lo spazio che con il tempo. Questi progetti diventano, molte volte, la chiave per aprire altre porte; porte di trasformazione, di riflessione, di maturazione che è lo scopo che l’amministrazione penitenziaria si pone assumendo progetti come questo della danza.

L’intuizione è stata buona. Nel corso degli anni Compagnia Lyria ha continuamente aggiornato le proposte all’interno del progetto, mettendo a fianco all’espressione corporea anche un approfondimento di natura culturale, letteraria, espressiva, fotografica, cinematografica. Piano piano il progetto è cresciuto.

All’inizio era rivolto solo alla sezione femminile; anche in questi due anni è solo per la sezione femminile a causa delle restrizioni Covid 19. Ma prima del periodo dell’emergenza sanitaria c’è stata la partecipazione dei detenuti accanto alle detenute e questo è stato un ulteriore passaggio assolutamente non scontato e unico. Perché quel contatto, con la consapevolezza del proprio corpo e della propria fisicità, a quel punto, non era soltanto un’esperienza individuale ma diventava relazionale in un ambito, come quello carcerario in cui la relazione, soprattutto fra generi diversi, si interrompe. Ricucire una naturalezza, se pur nel gesto della danza, di comunicazione corporea tra un detenuto e una detenuta è una enorme sfida che può portare a grandissimi risultati. Non abbiamo mai rilevato problematiche di gestione. I detenuti e le detenute hanno compreso e si sono sempre mostrati responsabili e seri in quello che andavano a fare perché riconoscevano l’importanza e il valore del progetto. La cosa si è arricchita ulteriormente con l’ingresso dei cittadini: persone esterne al carcere che per un tratto sperimentavano un percorso di danza all’interno del carcere, nello stesso gruppo dei detenuti e detenute. Una mescolanza che andava al di là del genere e che diventava una comunicazione attraverso la danza tra chi era libero e chi in quel momento non lo era.

La prima volta

La danza è poesia perché il suo fine ultimo è esprimere sentimenti,
anche se attraverso una rigida tecnica.
Il nostro compito è quello di far passare la parola attraverso il gesto.
(Carla Fracci)

Mi ricordo precisamente la prima restituzione al pubblico anche perché le prime volte non si scordano. Sono molto affezionata a quella prima. Danza e recitazione sul tema della maternità, del rapporto con i propri cari lontani, cosa comportava, cosa aveva tolto e come trovare il senso di quello che si stava vivendo e soprattutto l’intenzione a ricominciare. È stato bellissimo. Ricordo i volti emozionati di alcune persone appartenenti all’istituzione e che avevamo invitato. Eravamo nella palestra ristrutturata da poco anche grazie all’associazione di cui il Dottor Piovanelli allora era il presidente. Una grande emozione fra tutti i convitati. Grande sorpresa rispetto ad un prodotto di qualità.

Dopo quella prima abbiamo presentato il progetto a tutta la popolazione del carcere che non aveva partecipato e la reazione è stata di entusiasmo totale. E proprio i maschi chiedevano perché questo progetto non fosse rivolto anche a loro. Da lì l’idea di provare ad estenderlo anche ai detenuti. Un progetto di danza rivolto ai maschi, in questo ambiente, non è affatto scontato.

Questo ha portato la danza dentro alla casa di reclusione come una modalità di stare insieme. La danza come conoscenza di sé e dell’altro.
Il progetto è stato poi portato all’esterno nella manifestazione Danza al parco promossa dal Comune di Brescia.

Gli anni successivi abbiamo iniziato ad allestire il lavoro finale nel campo sportivo dell’istituto di Verziano. Un ricordo fotografico del primo anno: la lunghissima fila di auto intorno alla struttura del carcere; gli spettatori saranno stati più di duecento. È stata una enorme emozione.

La speranza

La stessa corrente di vita
che scorre nelle mie vene,
notte e giorno scorre per il mondo
e danza in ritmica misura.
E’ la stessa vita che germoglia
gioiosa attraverso la polvere
negli infiniti fili dell’erba
e prorompe in onde tumultuose
di foglie e di fiori.
(Rabindranath Tagore)

Nutro la speranza che dalle buone prassi e dalle esperienze locali si possa incidere anche su quelle che sono le politiche dell’amministrazione penitenziaria. È fondamentale. Io credo nelle piccole rivoluzioni che nascono dal basso piuttosto che dalle grandi modifiche imposte dall’alto. Ho sempre anche molto sentito la responsabilità di questo aspetto. Credo che il nostro ruolo sia di cura sia nei confronti della popolazione del carcere sia nei confronti della cittadinanza esterna. I progetti di qualità si possono fare e si devono portare avanti. Serve un lavoro di compartecipazione fra tante realtà che abitano e operano in un territorio. È importante, nella mia progettualità, creare continuità e collaborazione. È imprescindibile un lavoro insieme poiché la sola istituzione penitenziaria non potrebbe pienamente adempire al proprio compito se non avesse il supporto e la collaborazione e questo non avrebbe neanche senso.

Questi progetti hanno un valore aggiunto poiché possono contribuire anche nella fase di accompagnamento verso l’esterno. Sappiamo che le persone che hanno partecipato in carcere al progetto di Compagnia Lyria, ma questo vale anche per altri progetti, poi, una volta terminata la pena e uscite dal carcere, sono rimaste all’interno dell’esperienza. In alcuni casi i detenuti sono entrati come operatori di quelle realtà associative accostate in carcere.

Questa è la ricaduta nella vita di esperienze svolte all’interno dell’istituto penitenziario. Scoprire di poter superare certi limiti che il soggetto stesso, talvolta, si pone. Prendere consapevolezza delle proprie risorse cercando di offrire loro una espressione possibile non solo nello specifico della danza, per esempio, ma nella quotidianità. Molte persone hanno utilizzato le competenze che hanno acquisito durante l’esperienza misurandosi con quanto significa uscire dal carcere e riprendere una vita quotidiana. Una ricaduta reale.

Una metafora per dire del progetto danza

La danza non è un esercizio.
E’ uno stato dell’anima che esce attraverso il movimento.
(Antonio Gades)

Una farfalla. Perché il primo spettacolo aveva a che fare con il volo. La farfalla nasce dal bruco e quindi è una trasformazione in sé e la speranza verso un dopo, tutto ancora può iniziare. La farfalla è leggerezza, la possibilità di andare oltre, spiccare il volo. Restituire la bellezza che il bruco aveva in sé.

Trasformazione. In fondo la vita ci chiama a questo. Un percorso che va agito ogni giorno; un cammino, guardare avanti, proseguire. Tutti noi ogni giorno ci ripetiamo queste parole. I detenuti sono persone, con storie umane legate alla propria esistenza, esperienza, vissuto, ambiente. Persone che in alcuni casi non sono riuscite ad esprimere la propria soggettività nella pienezza. Tante volte mi sono chiesta come in certe condizioni, io, che tipo di strada avrei percorso. Questo non vuole essere giustificativo, piuttosto uno stimolo ulteriore per riprendersi le proprie forze e proseguire. L’unica cosa da fare, nel ruolo che rivesto è quella di non giudicare. Ci sono persone che lo fanno in quanto rivestono un ruolo specifico; nella struttura carceraria invece è necessaria tutt’altra attività e approccio. I detenuti sono persone che sono state giudicate, che sono anche giudicate durante e spesso, purtroppo, anche dopo il periodo nella struttura. Pertanto far leva sulla cultura è di fondamentale importanza per modificare lo sguardo sociale.

Infine la cura

La cura nei confronti di un’organizzazione come il carcere e della sua popolazione è responsabilità. Responsabilità nei confronti dei percorsi delle singole persone, dei loro esiti. Talvolta ho sentito nascere in me l’interrogazione sulla efficacia di una via intrapresa nei confronti delle situazioni con le quali mi sono confrontata nel corso degli anni lavorativi. Mi sono trovata anche a mettermi in discussione, cosa che non mi è estranea anche nella vita privata, guidata sia da un atteggiamento e sensibilità della ragione ma insieme con la passione necessaria per poter svolgere questo mio lavoro. Senza la passione non lo si può sostenere. Confrontarsi mano a mano con le difficoltà, senza abbandonare quel sentimento, ha significato mettere a frutto il fiore delle esperienze.

 

Anno 2021 | Progetto Verziano 11^ edizione
Raccoglitrice di storie: Ludovica Danieli

Circolo di scrittura e cultura autobiografica di Brescia
LUA Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari

La rubrica Sguardi attraverso è creata nell’ambito del Progetto Verziano 11^ edizione, realizzato da Compagnia Lyria e Ministero di Giustizia Casa di Reclusione Verziano Brescia, grazie al contributo di Comune di Brescia, Provincia di Brescia, Fondazione Comunità Bresciana, Ordine degli Avvocati di Brescia, Centrale del Latte di Brescia e in collaborazione con LABA Libera Accademia Belle Arti, LUA Libera Università Anghiari-Circolo di Brescia, Palazzo Caprioli, APS Libertà@Progresso e Istituto Lunardi. Gode del patrocinio di Fondazione ASM, AIIMF Associazione Italiana Insegnanti Metodo Feldenkrais e Consigliera di Parità della Provincia di Brescia.


Articoli correlati

Come aiutarci

Dona il tuo 5×1000 a Compagnia Lyria!

Nel riquadro a “sostegno del volontariato e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale” inserisci il Codice Fiscale 98065130175

Grazie!

Articoli correlati

Come aiutarci

Dona il tuo 5×1000 a Compagnia Lyria!

Nel riquadro a “sostegno del volontariato e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale” inserisci il Codice Fiscale 98065130175

Grazie!