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Autore: Compagnia Lyria

CAM – Consapevolezza Attraverso il Movimento®

Durante le lezioni collettive di CAM® vengono proposte sequenze di movimento che evolvono gradualmente in complessità ed escursione, sempre rimanendo nell’ambito di un’attività confortevole e non faticosa.

L’insegnante conduce gli allievi dando esclusivamente indicazioni verbali e non si propone come modello da imitare, in modo da consentire ad ognuno di effettuare la propria esplorazione con curiosità e creatività, rispettando le condizioni, il ritmo e le possibilità individuali.

Ogni CAM® ha un tema funzionale ed è costruita per migliorare una specifica azione, come camminare, alzarsi, sedersi, respirare, voltarsi, chinarsi, con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza delle possibili variazioni di movimento, ottimizzarlo, migliorarne la coordinazione e la qualità, con esiti molto positivi nell’esecuzione dei gesti quotidiani.

Permette inoltre di affinare performance più complesse, tra cui danzare, suonare, cantare e praticare sport, ambiti in cui l’applicazione del metodo è sempre più diffusa come pratica integrativa.

Il senso di maggior benessere, rilassamento, armonia, leggerezza, flessibilità e di riduzione di un eventuale dolore o tensione, sensazioni normalmente avvertite dopo le lezioni, sono il risultato del miglioramento dell’organizzazione personale.

I movimenti proposti spesso ripercorrono lo sviluppo motorio del bambino, in posizione supina, prona, seduta, a quattro zampe e in piedi.
Questo processo di apprendimento e di educazione avviene attraverso movimenti semplici ma inusuali, piacevoli e gentili.

Per partecipare a una lezione prova contattaci al 391 7424229 oppure social@compagnialyria.it



Metodo Feldenkrais®

Il Metodo Feldenkrais® stimola l’innata capacità umana di apprendere senza limiti e di migliorare le proprie funzioni, grazie alla riorganizzazione del sistema scheletrico e neuro-muscolare.
Favorisce la riscoperta del nostro potenziale e ci conduce ad agire in modo ottimale, con un senso di agilità, leggerezza e armonia.
Non ha controindicazioni, perché rispetta la persona e si adatta alle peculiarità, ai limiti e alle potenzialità di ognuno.
L’apprendimento si basa sulla consapevolezza delle proprie abitudini, dei condizionamenti, delle proprie tensioni e limitazioni nel movimento.
Offre la possibilità di abbandonare automatismi e cattive abitudini per poter scegliere nuove modalità e sentirsi comodi nelle azioni quotidiane.
Permette inoltre di affinare performance più complesse, in ambito artistico e sportivo.

Lo scopo del metodo è un corpo organizzato
che si muove con il minimo sforzo e la massima efficienza
Moshe Feldenkrais



Grazie al Metodo migliorano:
postura e respirazione
flessibilità e coordinazione
agilità, energia e vitalità
equilibrio, stabilità e orientamento nello spazio
qualità del riposo e del sonno
prestazioni artistiche e sportive
precisione ed eleganza nel gesto
piacere e libertà di movimento
organizzazione motoria in chi ha problemi ortopedici e neurologici
benessere emotivo e psicologico
processi di riabilitazione dopo incidenti e operazioni
capacità di apprendimento

si riducono:
scomodità e dolori
stress e tensioni
inutili sforzi nei movimenti quotidiani

Il Metodo Feldenkrais® viene insegnato da insegnanti certificati. E’ proposto attraverso lezioni collettive, dette CAM (Consapevolezza Attraverso il Movimento® ) e lezioni individuali, dette IF (Integrazione Funzionale®).

Per qualsiasi informazione:
tel. 391 7424229 oppure social@compagnialyria.it


Bibliografia consigliata

Le guarigioni del cervello  Norman Doidge – Ed. Ponte alle Grazie
Benessere completo con il Metodo Feldenkrais  D. w K. Zemach-Bersin, M. Reese – Ed. Red
Il caso di Nora  Moshe Feldenkrais – Ed. Astrolabio
La saggezza del corpo Moshe Feldenkrais – Ed. Astrolabio
Conoscersi attraverso il movimento  Moshe Feldenkrais – Ed. Celuc
Il corpo e il comportamento maturo  Moshe Feldenkrais – Ed. Astrolabio
L’io potente  Moshe Feldenkrais – Ed. Astrolabio
Le basi del metodo  Moshe Feldenkrais – Ed. Astrolabio
Lezioni di Metodo Feldenkrais, per un’ecologia del movimento  Marta Melucci – Ed. Xenia

Sguardi Attraverso | Testimonianza di una libera cittadina

Siamo tutti dentro

Ho conosciuto il Progetto Verziano di Compagnia Lyria per caso, ma, forse, nulla accade per caso. Era l’anno 2015, mi ero da poco laureata alla triennale, a settembre, in Psicologia.
Un giorno mi sono messa a sfogliare il giornale: il mio sguardo è stato catturato da un trafiletto che parlava di questa esperienza, che era già nelle edizioni avanzate, in cui si proponeva alla cittadinanza di entrare in carcere per il “Progetto Verziano” di danza contemporanea.
A quel tempo non conoscevo Giulia Gussago. Cercai di approfondire la conoscenza dell’iniziativa e di chi la proponeva, perché mi è sembrata da subito una bella occasione.
Sentivo che mi avrebbe coinvolta sia per l’amore per la danza, che è un’arte che mi ha sempre accompagnato, sia per l’interesse per il carcere, ambiente che avevo iniziato a conoscere perché avevo affrontato problematiche legate alla giustizia, proprio negli ultimi due anni della triennale all’Università.
Entrare a far parte del Progetto mi risuonava come un’opportunità per mettermi in gioco: sia per il tipo di proposta, sia per il luogo in cui si attuava, sia per i valori di fondo che io condividevo e condivido fortemente.
L’incontro tra il “dentro” e il “fuori” mi corrispondeva; andava a cogliere il nucleo di quella che era la mia idea dei rapporti tra società civile e reclusione. Ecco perché ho seguito anche negli anni successivi alla mia partecipazione diretta le iniziative di Compagnia Lyria a Verziano.
La danza, il gesto e il movimento come modalità di relazione, brillava ai miei occhi come una preziosa possibilità, a me che venivo dallo studio della psicologia dove l’incontro passa attraverso la parola.

Il primo ingresso nell’edificio del carcere non è molto vivido nei miei ricordi, ma questo deriva dal fatto che non era proprio la mia prima volta a Verziano: avevo già varcato quella soglia grazie ai progetti che facevamo con l’università.
E’ un carcere che si è sempre contraddistinto per la sua grande apertura, sotto tanti punti di vista.
La sensazione che prevaleva in me quel giorno era la familiarità.
Il senso di familiarità veniva dall’accoglienza che ho ricevuto e alle persone che ho incontrato; si avvertiva tra di loro, che erano già habituè di questo percorso, che ci aspettavano, che il nostro ingresso aveva il sapore del riunirsi, con Giulia e con le altre persone del Progetto.
Mi aveva molto colpito questa attesa.
Prevaleva una sensazione molto positiva, cioè sentivo di entrare in una storia che era già anche consolidata; mi pervadeva la sensazione di essere entrata a far parte di una grande famiglia.
Vivevo in me anche un certo timore, che derivava da un forte senso di responsabilità.
Quando si entra in carcere da fuori, si entra come se stessi, ma anche in rappresentanza di qualcosa di più ampio: sono Erica, ma nello stesso tempo porto con me la rappresentazione di ciò che sono le persone che vivono fuori. Attraverso me chi è “dentro” legge il mondo di “fuori” e la consapevolezza di questo fatto mi spingeva ad assumerne tutta la responsabilità nel mio agire al meglio delle mie possibilità.
Quando parlo di questo progetto ad altri e spiego che a Verziano, che è un carcere, uomini e donne possono sperimentare la danza Contact, quindi avere dei contatti danzando, metto in discussione una serie di tabù.
Per chi sostiene che in carcere questo tipo di attività “non si può fare” io sono una testimone che sì, “si può fare” e attraverso l’esperienza vissuta da me le persone fuori hanno l’opportunità di rivedere i loro pre-giudizi, le idee che si sono fatte sul “dentro”.
Il fatto che si rompe la “bolla prossemica” e che si entra in un contatto fisico che supera ogni distanza di sicurezza, certo pone il problema dei limiti ed era importante tenerli in considerazione.

Essere entrata altre volte in Verziano, e con una certa frequenza, smorzava l’effetto raggelante di chiusura che danno i catenacci, i cancelli, i controlli.
Il protocollo per entrare poi, rendeva evidente il contesto nel quale ci stavamo per immergere; non si poteva ignorare il fatto che era un carcere, che c’erano limiti e confini da non superare, obblighi e divieti da rispettare in modo ferreo.
Il cellulare, poi! Quante volte si controllava e si ricontrollava se si era lasciato in auto, oppure no!

La danza, così come veniva proposta da Giulia, inizialmente apriva in me molte domande.
Avevo intuito che qui si trattava di mettersi proprio in gioco: il suo modo di proporre la danza è una educazione al sentire, il movimento è conseguenza di quanto tu riesci a stare in contatto con te, con ciò che ti accade intorno e con gli altri. Questo è ciò che viene generato dal contatto e quindi è il movimento stesso che “unisce”.

Si smontava immediatamente l’idea che solo alcuni potessero danzare: il gesto è una cosa di tutti. Tutti in qualche modo un po’ danziamo e averne consapevolezza è una cosa importante.
Per la prima volta, sono stata al Teatro Sociale dall’altra parte (c’ero stata, ma dalla parte del pubblico) e sono felice che questa occasione si sia presentata con quel gruppo, con quelle persone. Una così bella esperienza, una bella esperienza umana proprio, va messa in risalto e presentata alla cittadinanza.

Ho praticato la danza per anni, sempre in una dimensione di gruppo e sempre con le stesse persone, e pensavo che il livello di complicità che si raggiunge viene dal fatto che si lavora per tanto tempo insieme.
E’ stata grande la mia sorpresa nello scoprire che nel corso del Progetto, nei momenti dell’improvvisazione, quindi nel caos, si intrecciavano momenti di intesa e di complicità incredibili ai miei occhi.
La danza proposta da Giulia, anche se concentrata nel poco tempo a disposizione, un pomeriggio o due alla settimana, ti porta ad andare in profondità molto velocemente e ti chiede di essere molto ricettivo.
E’ una danza che unisce.

Ricordando l’anno in cui ho partecipato, posso dire che esso si caratterizzava per il fatto che venivamo da mondi diversi: insieme a me c’erano anche persone che venivano da scuole di danza, (Barbara, per esempio, che adesso aiuterà a Giulia e Valentina nel portare avanti il progetto), così come c’erano altri che la affrontavano per la prima volta.
Questa differenza non ha mai messo dei muri tra di noi. Tutti possiamo danzare, se stiamo in ascolto e ci muoviamo secondo il nostro sentire. Questa è la grande forza di questa proposta.
Ho partecipato per due anni. Il primo quello nel 2015/2016 e poi ho partecipato all’edizione del 2018/2019.

Quando ho iniziato non sapevo bene cosa aspettarmi, temevo di trovarmi in difficoltà. Tutta la formazione che avevo ricevuto fino ad allora era improntata alla trasmissione di una tecnica, secondo canoni precisi, qui invece ero chiamata a confrontarmi con una nuova impostazione dove l’improvvisazione era un elemento cardine.
Certo ho incontrato delle difficoltà, però meno del previsto, perché mi sono sempre sentita molto guidata, sia da Giulia sia dal gruppo, dal clima che si era creato nel gruppo.
L’altro timore che avevo, ed è un timore che proprio mi contraddistingue anche come persona, è legato alla questione dei “limiti”.

Pensando al carcere come luogo dove il contatto umano è davvero necessario e allo stesso tempo è un grande assente, sentivo di volermi mettere in gioco tanto e capivo che sarebbe emersa forte l’esigenza di ricercare un contatto umano che andasse al di là anche della proposta di danza.
Un episodio che ricordo: nell’anno in cui ho partecipato, noi entravamo nel carcere, ma, in un paio di occasioni o forse qualcosa di più, qualcuno dei detenuti, che aveva i requisiti per farlo, poteva uscire per partecipare al Progetto fuori, nella palestra dove c’era Compagnia Lyria ai tempi e mi è capitato di doverli riaccompagnare in carcere alla fine dell’incontro. Vivevo con piacere quei momenti, ero contenta di rendermi utile e disponibile, erano dei momenti proprio liberi, di incontro sul piano umano, ma erano anche quelli che poi sollecitavano in me domande e questioni su che tipo di risposte dare.

Essere una ragazza, giovane, femmina,(e proprio qui il genere lo sottolineo), è una parte della relazione che porta con sé delle attenzioni, è un po’ come se ci fosse anche un pezzettino in più da gestire.
La mia gentilezza, perché io sono una persona gentile, va anch’essa gestita.
Ho imparato, grazie al percorso compiuto quell’anno, a non dare troppo per scontato il modo di pormi in certi contesti, a vivere la mia presenza, le mie caratteristiche anche fisiche, con meno leggerezza, soprattutto nei momenti un po’ destrutturati, non perché dovevo tirare freni, ma per una forma di rispetto per loro, perché una parola detta, oppure un cenno, lo posso fare con una certa tranquillità in alcuni contesti, ma all’interno di altri assumono un altro peso, un altro spessore.

Un’altra aspettativa, magari più banale, riguarda il mondo di fuori.
Nel trafiletto del giornale c’era scritto che il Progetto sarebbe stato articolato su tre versanti: una parte si sarebbe svolta solo con i detenuti, una parte al Teatro Sociale, e una parte prevedeva che la cittadinanza entrasse in carcere.
Io pensavo dentro di me a quante persone avrei voluto invitare, perché già questo mio interesse per il carcere stava maturando e magari in casa o agli amici spesso ne parlavo. Era l’occasione perfetta per chiedere loro di provare: “Venite, vedete anche voi che cosa può nascere in un carcere, in un luogo che noi teniamo in mezzo ai campi, lontano, come se non vedendolo non esistesse, invece c’è. Esiste e ci può essere anche in un bel modo”.
Nasceva l’aspettativa di fare anche qualcosa più nel concreto rispetto al “rompere veramente i muri”, cioè smontare pregiudizi e barriere culturali.

Era come se mi sentissi un foglio bianco, avevo voglia di un nuovo inizio. Più che un’aspettativa, era proprio un po’ un “motore” che mi spingeva ad esplorare nuove possibilità.
Io sono una persona organizzata, controllante, ma qui si trattava di mettersi in gioco, di scoprire cose nuove, anche di sé.
La tecnica della “ Contact improvvisation” che si basa sul gesto del tocco, è stata una folgorazione. Con Giulia siamo partiti da questo: dal movimento che si genera a partire dall’unione tra persone.
E’ una danza che unisce.

Io penso che l’arte sia un mediatore.
Ho sperimentato che la danza, così come altre attività artistiche, sia proprio una sorta di “ponte”. Non si usa la parola, ma questo non significa che non si entri in profondità.
Nella danza, in questo tipo di danza, ti è chiesto di esserci con il corpo e di dire il tuo nome. Non serve altro.
Chi siamo, le nostre identità, si svelano attraverso il movimento e lavorando spesso a coppie o in gruppi, ognuno di noi sente anche con chi ha più affinità.
Si crea uno spazio di libertà.
Anche le persone detenute sottolineano questo.
Tutti noi abbiamo un nome e un corpo, siamo sullo stesso livello e ci muoviamo entro questo spazio secondo il nostro sentire, seguiamo tutti le stesse indicazioni, ma ognuno secondo il proprio essere.
Vivere uno spazio di libertà dove tutti possiamo essere ciò che siamo è una cosa potentissima; non solo per chi vive in un contesto di privazione della libertà, ma anche per noi.

Certo, chi è detenuto è privato della libertà fisica, ma anche noi fuori viviamo una privazione di libertà. Penso alle nostre routine, alle nostre cose da fare, alle gabbie delle categorie in cui siamo costretti.
Il fatto di essere lì, con i nostri corpi e vivere la stessa esperienza artistica e creativa, anche per me e per le persone che venivano da fuori, ha rappresentato un vissuto di libertà che non ci è concesso in altri spazi.
Sperimenti sulla tua pelle, e con altri, qualcosa di diverso di te. Per chi è dentro significa anche portarsi fuori dalle dinamiche di sezione, per esempio.

Partendo dall’assunto che “tutti lo possono fare”, la danza diventa liberante e aggregante.

Il periodo di chiusura per il Covid mi ha portato a fare questa riflessione sulla bellezza: le cose belle sono belle perché sono comunicative, più delle parole. E noi cerchiamo le cose belle.
Ciò che fa vivere un’emozione profonda, ci fa sentire vivi.
Penso alla danza, penso all’arte che è bellezza, è creare e generare bellezza.

E in un ambiente come è il carcere, per chi è “dentro”, è ancora più importante incontrare l’arte, la bellezza.
E per noi, fuori, pensare di creare con chi è dentro, è bellissimo.
Rivela che è necessario andare in controtendenza su quello che si pensa del carcere. Allora è facile rispondere alla domanda: La danza, perché? Perchè è bella, punto.

La partecipazione al Progetto ha modificato il mio modo di pensare alla danza.
Anche il mio approccio all’insegnamento della danza alle più piccoline è cambiato.
Ora mi sento libera di sperimentare, e so gestire anche proposte di libera improvvisazione.

La legittimazione della libertà del gesto e della libertà di fare quello che si sente in quel momento, è sicuramente una cosa molto forte, e l’ho appresa nel percorso del Progetto Verziano.
Oserei dire che nella libertà si realizzava anche la presa di responsabilità da parte di tutti e di ciascuno. La libertà di cui sto parlando è la “libertà di” essere, non la “libertà da” ogni regola.
Al contrario, i valori del rispetto e della reciproca attenzione e cura vincolavano i comportamenti di tutti e tutti si impegnavano ad attenersi alle regole di comportamento che discendevano da essi.
Tutti hanno compreso che senza questa disciplina non avremmo costruito la nostra stessa libertà, e nemmeno avremmo potuto continuare a danzare bene insieme.

La continuità

Si è rinnovata in me la convinzione relativa a quanta continuità ci fosse tra dentro e fuori il carcere. Percepivo la continuità, come se i muri, fossero solo dei muri fisici.
Sentivo che l’energia che si respirava o si viveva, o ci si passava attraverso il movimento, trapassava i muri e continuava nel nostro essere fuori, non c’era nessun grado di separazione dal punto di vista spirituale.

Questo vissuto ha lasciato in me un segno importante e ha rafforzato un pensiero che sto maturando da tempo: la continuità tra il “dentro” e il “fuori” esprime la totalità del nostro vivere sociale e non possiamo vivere bene “fuori” se non miglioriamo anche il vivere “dentro”.
Questa nuova consapevolezza mi spinge ad approfondire ancora di più lo studio delle azioni concrete che possiamo mettere in atto affinché vengano abbattute quelle barriere sociali, quei pregiudizi e stereotipi che tendono a chiudere e separare dal mondo le persone che hanno sbagliato, come se fossero “altro” rispetto a chi è fuori. Diverse sono le storie di ciascuno, ma la storia di uno potrebbe essere dell’altro.
Mi proietto così in un futuro, anche professionale oltre che personale, che mi vede investire le mie energie e le mie capacità nell’ambito della giustizia e del cambiamento dei suoi strumenti, affinché prevalga un’ottica di inclusione, perché mi è chiaro che solo così potremo vedere un mondo migliore.

La Bellezza

Anche la Bellezza è un segno che il Progetto danza di Compagnia Lyria mi ha lasciato.

Non si trattava del “bello” così come viene esteticamente definito dai comuni canoni. Era qualcosa di più, qualcosa che afferisce al mondo dell’etica, della finalità.
Ho assistito, in compagnia di mia madre, alla restituzione degli ultimi due anni che Compagnia Lyria ha presentato recentemente al Nuovo Eden. A causa del Covid sono stati anni difficili un po’ per tutti, ma il commento che è affiorato alle nostre labbra è stato: “Ci siamo lamentati noi della chiusura, però per qualcuno è stata veramente più dura”. Proprio per questo dato di fatto ho apprezzato ancora di più quanto ha fatto Compagnia Lyria in questo frangente. E’ bello pensare a come siano stati in grado, in questi due anni di pausa, di mantenere un contatto col dentro, a che cosa ha rappresentato tutto ciò.

Provo un po’ di rammarico per non aver partecipato a tutte le edizioni, tuttavia devo dire che anche da spettatrice mi sento coinvolta.
Penso che ciò accada per la grande passione che nutro per la problematica del carcere, oltre che per la danza.
Compagnia Lyria è riuscita a comporre una proposta completa, perché coinvolge tutti, ognuno nella misura in cui vuole darsi, o può.

Ricordo i due momenti finali del Progetto cui ho partecipato. Al Teatro Sociale, il primo, ed è stato bellissimo.
Alla fine dello spettacolo cadevano dall’alto dei vestiti, tutti li indossavamo, ci vestivamo in modo colorato, giocavamo fra di noi. E’ stato molto bello, perché vivevamo il gioco con la sensazione che la platea sparisse dai nostri pensieri. Giocavamo e l’importante era stare bene tra di noi.
La gente guardava e percepiva questo: che c’era un gruppo di persone che stava bene insieme, che si sentiva unito da un senso di appartenenza così forte da vivere il gioco in perfetta armonia e reciproca intesa.
La cosa più bella però è che, da fuori, non si capisce chi è chi, siamo tutti uguali, e la platea, che inizialmente se lo chiede, ma non riesce a distinguere quali siano i detenuti e detenute e quali siano le persone che vengono da fuori, alla fine smette di chiederselo.
Questo è un importante punto di arrivo, perché apre le menti alla consapevolezza che siamo tutti persone e che le differenze tra noi non sempre si vedono e non sempre sono importanti.

Sin dal primo giorno del Progetto si segue questa finalità e lo spettacolo rispecchia l’intero percorso, lo esprime in modo completo di fronte alla cittadinanza. Spesso chi guarda rimane senza parole. Lo sguardo esprime la gioia di avere assistito ad un’opera d’arte “bella”.

Il secondo spettacolo è stato realizzato sul prato di Verziano. Si è creata un’atmosfera di magia quel pomeriggio.
Il pubblico era intorno e noi eravamo dentro una sorta di cerchio invisibile. Eravamo impegnati su di noi, a malapena ricordavamo di avere qualcuno che ci guardava. L’idea che ci guidava era quella di fare le cose bene tra di noi. Si è realizzata un’intesa talmente intensa che ogni movimento era in sintonia con quello degli altri al punto tale che chi guardava pensava fosse tutto frutto di una precisa programmazione.
Era, invece, frutto dell’improvvisazione, ma ciò che siamo riusciti a fare insieme difficilmente riesce laddove manca questo spirito di gruppo e questa armonia del sentire.
Chi è venuto a vedermi ha esplicitamente posto la domanda vedendo quanto ero riuscita a fare sospesa sulla sedia insieme ad un ragazzo del gruppo. Pensava ci fossimo messi d’accordo prima.
Ma io penso che non sarei riuscita a danzare in modo così elevato se non avessi percepito l’energia che ci legava e ci faceva muovere in sintonia. Eppure era da poco tempo che danzavamo insieme, non avevamo alle spalle anni di studio comune, bensì i pochi incontri settimanali che ci erano concessi.
La domanda: “Vi eravate messi d’accordo?” trova una risposta negativa, perché l’improvvisazione si snoda secondo itinerari sempre nuovi e imprevedibili.
Eppure noi ci capivamo.
Poi le cose accadevano e accadevano ogni volta in modo diverso. Si creava una figura coreografica talmente bella, da suscitare l’ammirazione di chi guardava, ma noi stessi non saremmo riusciti a spiegare con le parole come si era costruita.

Il gruppo che aveva condiviso questo modo di stare insieme danzando, si percepiva come unità, e se accadeva che qualcuno non scendesse a lezione per qualche motivo, non si sentiva completo.

La scrittura

Ci siamo soffermati tanto sulla danza, ma c’erano anche momenti di scrittura.
Non era un corso di scrittura, bensì era una scrittura libera, autobiografica, guidata da suggestioni letterarie e non, ma con stimoli che servivano a metterci tutti sullo stesso piano. Quindi il fatto che uno facesse più fatica a scrivere di altri, non era una cosa che pesava.
In coerenza con la proposta della danza, ci venivano proposti strumenti di espressione adatti a farci sentire tutti allo stesso modo, a non far sentire penalizzato nessuno e così tutto dipendeva da quello che ognuno ci voleva mettere. La sospensione del giudizio è la regola di questo tipo di scrittura.

Il tempo

Quando facevamo il laboratorio di danza a Verziano il tempo aveva tutta un’altra accezione, era un tempo diverso. Era scandito solo dal richiamo della guardia che annunciava l’ora di chiusura del laboratorio.
Il tempo, in quello spazio di libertà, era un tempo “sospeso”, come se proprio lì in quell’ambiente di chiusura, si creasse una bolla, dove tu sai che intorno le cose vanno avanti, ma tu ti senti in una dimensione “altra”.

Giulia

Quando ci sono persone, come Giulia, che mettono l’arte “a servizio di…”, avviene una cosa molto rara: nel corso degli anni non c’è stato cedimento, la coerenza con i valori dichiarati non è mai venuta meno e il tempo non ha scalfito la linea di conduzione dei laboratori. I principi guida di questo tipo di danza sono gli stessi, dall’inizio alla fine del percorso: anche a fronte di uno spettacolo da portare davanti al pubblico le correzioni sono note tecniche molto semplici, che non vanno a costringere i gesti o i movimenti dei partecipanti. Sono più richieste di attenzione che altro. E così ha trasmesso anche a noi questo stile di reciproca attenzione e di rispetto.

 

Anno 2021 | Progetto Verziano 11^ edizione
Raccoglitrice di storie: Piera Milini

Circolo di scrittura e cultura autobiografica di Brescia
LUA Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari

La rubrica Sguardi attraverso è creata nell’ambito del Progetto Verziano 11^ edizione, realizzato da Compagnia Lyria e Ministero di Giustizia Casa di Reclusione Verziano Brescia, grazie al contributo di Comune di Brescia, Provincia di Brescia, Fondazione Comunità Bresciana, Ordine degli Avvocati di Brescia, Centrale del Latte di Brescia e in collaborazione con LABA Libera Accademia Belle Arti, LUA Libera Università Anghiari-Circolo di Brescia, Palazzo Caprioli, APS Libertà@Progresso e Istituto Lunardi. Gode del patrocinio di Fondazione ASM, AIIMF Associazione Italiana Insegnanti Metodo Feldenkrais e Consigliera di Parità della Provincia di Brescia.

Sguardi Attraverso | Testimonianza di un libero cittadino

Mi chiamo Arturo, ho 57 anni, due figli, sono divorziato. Ho sempre lavorato nel campo dell’informatica prima come consulente, poi come piccolo imprenditore, adesso ancora come consulente. Ultimamente anch’io ho scelto di limitare il tempo del lavoro; quindi adesso faccio un part-time che mi lascia un sacco di tempo libero e la vita è cambiata. E’ cambiata, è cambiata di parecchio.

Per quanto riguarda il progetto Verziano, ci sono ormai da sette anni, dal 2014, dall’inizio del 2014, però ne parleremo…
Prima del progetto, ho conosciuto Giulia e il suo gruppo, nel senso che un’amica mi ha detto: ”Prova anche tu queste lezioni di danza, guarda, sono interessanti, sono qualcosa di un po’ diverso”. In quel periodo avevo voglia di fare cose un po’ al di fuori di quello che è il mio ambiente diciamo abituale, e quindi ho provato.
Era la fine del 2013 credo, e sono capitato a una di queste lezioni di danza di Giulia e la cosa mi è piaciuta molto.
Il discorso Verziano è nato un po’ collegato a questo, perché Giulia proponeva come esito finale del corso, come percorso di questo suo andare avanti, il fatto di entrare in carcere, di conoscere i detenuti e di fare questo spettacolo alla fine. All’inizio la cosa onestamente mi ha spaventato molto, perché c’erano i detenuti; “cosa c’entro io con i carcerati!”; perciò ero molto diffidente.
Poi invece, ripensandoci ho detto:”Perché no?”, e quindi ho iniziato.
Come spesso accade a queste lezioni, uno dice: ”Sì, sì, io partecipo a tutte le lezioni, però non farò mai lo spettacolo finale; figurati se vado sul palcoscenico!”. E poi alla fine ci vanno tutti sul palcoscenico!
Ho provato a iniziare molto curioso, dicevo, anche molto diffidente, a partecipare a uno di questi incontri in carcere e la cosa devo dire che invece mi ha subito fatto un bell’effetto, una bella impressione: cioè, il fatto di partecipare a una cosa molto distante da quello che potrebbe essere il tuo sentire comune, quello a cui non hai mai pensato nella vita. Mai e poi mai avrei pensato di fare una cosa di quel genere; invece non c’è niente di strano: ci si incontra tra persone, persone che in questo momento stanno vivendo un tipo particolare di esperienza e con le quali ci si trova a interagire in modo… non dico normale, perché non c’è niente di normale nella vita in carcere. Con qualcosa però che assomiglia abbastanza alla normalità; in questo caso la danza che unisce e che fa da collante un po’ a tutto questo.
Oltre al discorso danza, c’è proprio anche il rapporto personale. Già il fatto di essere lì insieme e danzare, implica un rapporto personale abbastanza forte, anche se limitato a un particolare aspetto e a un certo ambito.

Non so se c’è sempre una motivazione profonda “per fare delle cose”.
La prima volta che sono entrato in carcere, non so se è proprio la prima, ma è quella che mi viene in mente ora: si arriva al parcheggio, si suona, ti aprono e si entra nell’atrio. La prima volta ci hanno fatto annusare dai cani antidroga. Ci hanno fatto firmare tanti documenti: una cosa burocratica abbastanza pesante.
Poi questi corridoi che si attraversano, ogni “tot” c’è un cancello di ferro con delle chiavi enormi, delle chiavi che sembrano quelle delle fiabe, dell’orco; queste chiavi gigantesche, clack, clack. Ci sono anche i cancelli elettrici, non soltanto così.
Dentro non è che sia così male Verziano, perché a parte tutte queste cose è come una scuola media, un po’ più brutta di una scuola media normale, perché abbiamo delle scuole medie probabilmente non bellissime o perlomeno quelle che ho visto io. E poi c’era la palestra. Siamo entrati in questa palestra, abbiamo aspettato un po’, sono arrivati i detenuti, ci siamo presentati.
Conoscere queste persone, c’è un poco di emozione, perché tu hai in testa una domanda: ”Ma questa gente che è in prigione, chissà che cosa ha fatto, chissà com’è”.
Mi era già capitato di conoscere, di avere esperienza con persone che erano state in prigione, magari che conoscevo o miei amici, però lì proprio entrare, entrare all’interno del carcere, in carcere, è una cosa che inizialmente mi faceva un po’ di paura. Poi invece no, perché ti trovi, sei lì a parlare del progetto, a danzare, a fare cose.
Tutti sono lì per questo tipo di motivo. Tutti vogliono fare questo tipo di cose, quindi questo ti unisce.

Prima di tutto dobbiamo dire che cos’è per me la danza, perché non mi sembra di essere un classico danzatore, diciamo tipico.
Il discorso danza forse lo avevo nell’anticamera del cervello, ma molto nella soffitta del cervello. Forse ce l’avevo come una cosa che tutto sommato mi sarebbe piaciuto vedere, ma che non avevo mai avuto né occasione né coraggio di provare.
Da questo punto di vista per me la danza è un lasciarsi andare al di là di quelle che sono le costruzioni che hai fatto su di te, piuttosto di come ti sei sempre visto. Utilizzare questo strumento come linguaggio per scambiare, per avere qualche tipo di relazione con un’altra persona come per esempio all’interno del carcere, è una cosa che sicuramente aiuta.
Ho avuto da sempre questa ritrosia al contatto fisico, che nel mio caso era quasi una sorta di paura, di diffidenza. E invece sei lì per questo, quindi devi superare qualunque tipo di pregiudizio o dubbi nel contatto con l’altra persona; sei lì per danzare con qualcuno.
Nella danza che facciamo a volte lo spettacolo finale era basato su una coreografia fissa, precisa, ma il lavoro che facevamo in carcere non verteva solo sullo studio di questa coreografia. Giulia ha sempre messo l’accento sul discorso di una danza più libera, di improvvisazione, di micro composizione istantanea.
I primi due, tre spettacoli che abbiamo fatto avevano una forma precisa che poi, nel corso del tempo è andata diluendosi. L’ultimo o gli ultimi due spettacoli erano basati quasi del tutto sull’improvvisazione. Nel corso dell’anno ci eravamo studiati una serie di parole, vocaboli, come se la danza fosse un dialogo, di forme che poi in qualche modo andavamo a mettere in sequenza, ad eseguire, nel corso dello spettacolo; avevamo il nostro bagaglio, il nostro bagaglio di possibilità che si metteva in atto a seconda di come giravano le cose. Io mi trovo più a mio agio con un discorso più fissato; non sono un grande improvvisatore, però anche l’improvvisazione è molto interessante.

Non sono certo la persona più indicata per parlare di danza ma, per mia esperienza, nella danza non ho mai trovato “violenza”.
Ci sono momenti di danza più calma, più riflessiva, più dolce. Può anche uscire la rabbia che può dare origine a dei movimenti con una dinamica più esasperata, però stiamo sempre parlando di rappresentazione di qualcosa. Muoversi in modo violento non vuol dire essere violenti.
Mi sembra, che il fatto di danzare insieme a qualcuno, sia esattamente l’opposto della violenza.
A volte danzare con una persona ti porta a conoscere, o a intuire, qualcosa di profondo su di lei, ma non è questo lo scopo principale per cui danziamo.
Quello che facciamo, la danza, è qualcosa di spontaneo, che ti unisce nel creare qualcosa che è diverso da te o dall’altro.
Può esserci anche da parte mia o da parte dell’altra persona il fatto che uno esprima dei sentimenti dolorosi o anche la rabbia nei confronti di qualcosa; però la gente che danza insieme è gente che danza insieme, quindi sta condividendo qualcosa.
E’ un girotondo. Poi va be’…, siamo persone. C’è quello che ti è più simpatico qualcun altro meno ma noi siamo lì per uno scopo. E anche i detenuti, i ragazzi del carcere sono lì per quello. Poi magari lì cercano anche qualche altra cosa, una scusa per vedersi, per incontrarsi. Il fatto che sei lì a fare danza vuol dire che è quello che vuoi fare, che vuoi fare perlomeno soprattutto quello, anche se non è l’unico motivo per cui sei lì. Quindi ci provi.
Che cosa mi aspettavo di incontrare da questo percorso?…Niente, nel senso che non avevo aspettative, non avevo idea di quello che avrei incontrato. Avevo molta curiosità. Volevo un po’ uscire dal solito Arturo che faceva le solite cose, questo sì. Ho incontrato però l’esperienza della danza, ripeto, io non sono un danzatore, però mi piace, mi diverto molto, e mi diverto molto a farlo.
Poi sono venuto a contatto con un mondo col quale difficilmente avrei potuto venire a contatto, un mondo con persone che hanno delle esigenze differenti; stiamo parlando di persone che in questo momento stanno vivendo un discorso di limitazione molto forte, che hanno un certo tipo di vissuto, di passato.
La maggior parte di noi, io per principio, non ha interesse a sapere perché una persona si trova lì.
E se anche c’è la curiosità di sapere, la curiosità la si prende a bastonate. Chi è in carcere ha evidentemente commesso degli errori che lo hanno portato a essere lì.
Nessuno lo nega. Tutti quanti abbiamo commesso o commettiamo degli errori più o meno gravi e…quindi…
Ho delle grosse difficoltà a pensare a me e al fatto che io possa essere cambiato per questa esperienza. C’è da dire che sicuramente sono sempre io, ma mi sono accorto anche con un certo stupore che sono passato attraverso un’esperienza per me molto particolare, vivendola in modo molto sereno.
Non trovo le parole per esprimere la cosa, non trovo neanche parole semplici. Il discorso è questo: non avrei mai pensato, prima di iniziare questa esperienza, che avrei potuto farla; cioè, per come mi vedevo prima di iniziare, era una cosa completamente al di fuori delle mie possibilità…una cosa che non era assolutamente nelle mie corde. Invece non è vero, poteva esserlo. E lo è stato. Sicuramente è una bella soddisfazione. In modo molto egoistico devo dire che mi ha gratificato parecchio. Mettiamola così: sono più contento! Forse è troppo semplice metterla così, però sto meglio, anche con me stesso. Per esempio, a volte arrivo lì “gnecco”; faccio danza e mi passa.
Poi il corpo di ognuno ha dei limiti; c’è chi ne ha di più, chi meno. Qualche limite ce l’abbiamo tutti, però, cosa vuol dire? Mi sono sentito parte di un’opera artistica e ho sentito di dare anche un contributo piccolo, molto piccolo, ma è molto bello il fatto di sentire di riuscire a dare questo contributo. Mi sento parte di un’opera artistica con una valenza un po’ passiva, nel momento in cui abbiamo Giulia o Valentina o qualcuno diciamo, che orchestra, che ha la regia su questa cosa: io faccio, io partecipo a quest’opera secondo le direttive.

Però non è soltanto questo, anche se già per me è una grande cosa.
Il fatto di poter partecipare al Progetto Verziano è una cosa che mi ha dato un grande piacere, oltre al fatto di star meglio. Siamo riusciti, ciascuno di noi è riuscito, chi più chi meno, a metterci un pezzettino del suo.
Penso di essere una persona piuttosto narcisista, parecchio narcisista. Tendo a autolimitarmi se riesco, però delle volte… Un po’ di narcisismo sì, ci vuole per forza. Dare a se stessi, è la prima cosa che abbiamo: noi stessi; poi ci sono anche tutti gli altri.
Debbo dire che il gruppo di Compagnia Lyria, nel quale si sono avvicendate un sacco di persone; ci sono state per uno, due anni, oppure continuano a esserci, è un gruppo nel quale ci si sente molto bene. E’ un gruppo dove si viene accolti.

 

Anno 2021 | Progetto Verziano 11^ edizione
Raccoglitrice di storie: Monica Bertelli

Circolo di scrittura e cultura autobiografica di Brescia
LUA Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari

La rubrica Sguardi attraverso è creata nell’ambito del Progetto Verziano 11^ edizione, realizzato da Compagnia Lyria e Ministero di Giustizia Casa di Reclusione Verziano Brescia, grazie al contributo di Comune di Brescia, Provincia di Brescia, Fondazione Comunità Bresciana, Ordine degli Avvocati di Brescia, Centrale del Latte di Brescia e in collaborazione con LABA Libera Accademia Belle Arti, LUA Libera Università Anghiari-Circolo di Brescia, Palazzo Caprioli, APS Libertà@Progresso e Istituto Lunardi. Gode del patrocinio di Fondazione ASM, AIIMF Associazione Italiana Insegnanti Metodo Feldenkrais e Consigliera di Parità della Provincia di Brescia.

Sguardi Attraverso | Testimonianza di una detenuta

(RI)TROVARE LE PAROLE

Premessa dell’intervistatrice:
Questa testimonianza, come tutte quelle raccolte in periodo pandemico, è avvenuta attraverso collegamenti Skype con il carcere.
Nel corso del primo incontro con Arianna*, in data 18 febbraio 2021, l’agente viene al computer e con velocità interrompe la comunicazione per un’urgenza. Io non faccio in tempo a salvare la registrazione su Skype e…mi dispero per non aver attivato il mio registratore sul cellulare. Per fortuna avevo salvi i miei appunti cartacei e soprattutto impressa nella memoria la tonalità di questo dialogo.

Arianna* si presenta sorridente, desiderosa di questo incontro, pur in uno spazio ristretto come quello di uno schermo.
Appare il suo volto dopo il brevissimo saluto dell’agente di polizia, una donna bionda che fa da mediatrice.
Preferisce non dire molto di sé: si sono abituati così in carcere, a questa reticenza, o riservatezza, per difendersi da uno stigma che non viene meno nonostante gli sforzi della comunità.
Io le dico semplicemente che mi chiamo Francesca e che faccio l’insegnante di lettere. L’informazione sulla mia attività professionale la fa sobbalzare: “Che bello! Anch’io da che son qui leggo moltissimi libri…”.
Nel parlare ad un certo punto non trova la parola che cerca e si ferma a commentare: “E’ la carcerite, come la chiamiamo noi! La malattia che ci prende quando stiamo qui un po’: quella di non riuscire a trovare le parole, ad esprimerci… Dimentichiamo tante cose…”.

Le chiedo come mai ha deciso di partecipare a questo Progetto: “Soprattutto per farci conoscere all’esterno… La gente ha pregiudizi. La Compagnia Lyria ci ha dato importanza, così come tutti i volontari che sono per noi. E’ bello… Io vorrei testimoniare questa esperienza…”.
A. torna sul tema della difficoltà di esprimersi in carcere: dice che si sviluppa una specie di lingua interna; pochi sono gli italiani e si mescolano tante lingue, si trova il modo di comunicare lo stesso, come un codice nuovo, ma manca una identità. Manca l’”identità parlata”! Capisco che è importante, per sentirsi a casa, anche sentire un idioma proprio…
Ma questo Progetto permette di farsi capire e di comunicare anche “all’esterno”: “Mi piacerebbe che si capissero le nostre problematiche”.
“Mi ha attirato questo Progetto anzitutto perchè ci davano la possibilità di stare insieme maschi e femmine… Non è semplice: dopo un po’ che si è qui, si hanno bisogni anche affettivi – si può capire… L’educatrice ci ha detto che si poteva scrivere una domandina e io l’ho fatto… Ormai è 4 o 5 anni che partecipo”.

Com’è andata la prima volta?
“All’inizio è stato difficile…entrare in quella palestra enorme, davanti a tutti…un senso di vergogna…gli altri mi conoscevano e magari pensavano: “Ma guarda quella che vuol fare danza…”.
Poi però le conduttrici sono state meravigliose!
Ci hanno aiutato ad esprimere le nostre emozioni, sia verbalmente che col movimento.
In quell’ora eravamo persone unite da un obiettivo comune, eravamo uguali! E anche spiritualmente: c’era calore!
Qualche volta non avevo voglia di andare agli incontri: c’è pigrizia qui, o magari c’è il capriccio di non fare una cosa. E’ vero, in carcere c’è anche la scuola, ci sono attività di lavoro…però c’è anche la pigrizia dello starsene lì in cella, sul letto… Ecco, con Lyria noi abbiamo avuto la possibilità di andare all’esterno con lo spettacolo al Teatro Sociale! E’ stato come avere una rivincita sulla vita”.

“La prima volta che abbiamo fatto danza è stato nel 2013, ho pochi ricordi, ma di sicuro sono scesa arrabbiata! Volevo solo sfogarmi. Poi quel gruppo è diventato una famiglia! C’era affetto tra noi”.

Come è l’esperienza della danza?
“Ci proviamo!”. “E’ un movimento che viene da dentro. Le emozioni escono in questo modo, non ci preoccupiamo della forma.
E lo spettacolo all’esterno del carcere ci fa sentire uguali tra noi (detenuti, conduttori, anche le guardie carcerarie sono state stupende…) e uguali agli altri che ci guardano. Durante lo spettacolo non ci sono differenze. Qualsiasi cosa che tolga le sbarre: questo è il desiderio. Io sono stata catturata. E tutto poi è diventato una catena: ci si coinvolgeva in questa realtà, ci si stimolava tra noi…. Dai, vieni…perchè stai lì a far niente…? Vieni giù…”.

Chiedo se in qualche cosa le sue aspettative sono state disattese.
“No! Io sono uscita meravigliata! Non mi aspettavo tutto questo…”.

Il “movimento” all’interno di una realtà come quella del carcere che cosa è?
“Noi qui ci chiudiamo, diventiamo ingobbiti. Oziamo e siamo anche apatici. Il movimento è quello che ci porta fuori… E poi la danza è anche uno sfogo. Noi qui di fronte alla sofferenza che proviamo tendiamo a dribblare…diciamo così nel nostro modo… La danza ci ha portato a stare di fronte anche al dolore…ci sono stati momenti difficili…”

Ci sono segni dentro di te che questa esperienza ha lasciato?
“Pensavo di essere sbagliata, ero complessata. La danza mi ha permesso di rivedere questa opinione di me stessa. Sì, abbiamo fatto un’opera d’arte!”.

Il secondo incontro, sempre via Skype, lo abbiamo potuto fare solo il 7 giugno 2021.
Arianna* inizia dicendo subito che l’altra volta “non ha detto nulla di sé” e vuole subito colmare la lacuna.
“Ho 58 anni; tra detenzione provvisoria e definitiva, è quasi 8 anni che sono in carcere; ho una condanna – non ho problemi a dirlo – per associazione a delinquere; il mio compagno è qui anche lui. Io ho una pena di 11 anni, lui ne ha presi molti di più. La mia famiglia…non so più….i miei genitori sono deceduti, dico fortunatamente perché se avessero saputo questa storia non so se sarebbero sopravvissuti. Quelli che fan parte della mia famiglia hanno rifiutato questa mia vicissitudine, per cui sono 8-9 anni che non li sento e questo non mi interessa. Ho conosciuto una splendida signora per la quale ho fatto da badante alla mamma (nel periodo in cui sono uscita dal carcere, perché ero incensurata: dopo un tot, se non sei processato, non puoi rimanere in carcere). Ho fatto da badante a sua madre e da quel momento si è affezionata a me, sapendo anche che avrei potuto rientrare in carcere. L’unica persona che mi sta seguendo è lei, con le sue figlie. E’ una splendida amicizia, quella è diventata la mia famiglia”.

Questo aspetto è molto particolare, molto bello…
“Sì, perché – non so se mi sono espressa correttamente la scorsa volta – come le persone che sono venute con noi detenuti a fare danza, anche questa signora dà molta fiducia. Forse ci sottostimiamo più noi che gli esterni…”

Dici che quasi siete più voi a pensare che gli altri abbiano pregiudizi, che non gli esterni?
“Effettivamente sì, io l’ho provato in prima persona. Come dicevo, dopo due anni che ero qua sono dovuta uscire, mi ha seguita una psicologa (quella di “Carcere e territorio”), perché io sono di Brescia, sono stata una commerciante e avevo perfino vergogna a camminare per strada. Un uomo detenuto viene anche accettato, ma la donna detenuta… Mi erano venuti dei complessi. Però quando sono entrata col definitivo ho visto da parte dei volontari, da parte degli esterni e da parte di questa signora con la sua famiglia che non hanno pregiudizi: loro conoscono la persona e di conseguenza… Perchè il nostro pensiero è sempre: quando usciremo ci accetteranno ancora?”

Ci sono delle cose, anzi, tre cose, tra quelle che mi hai detto la volta scorsa che mi hanno incuriosito e fatto pensare. La prima è quando hai usato l’espressione “la rivincita sulla vita”.
“La rivincita sulla vita è che, essendo in carcere, la persona si sente invalidata, sotto tutti gli aspetti. Perchè, è naturale, stai pagando uno sbaglio commesso. Il fatto di partecipare a uno spettacolo, sentirti importante, è la rivincita che tu provi dopo che hai vissuto la detenzione: anche il fatto di potersi presentare in mezzo al pubblico, potersi confrontare con gli esterni, poter eseguire dei movimenti (naturalmente grazie a Giulia e alle persone che ci hanno seguito…un grazie infinito a tutti, veramente!)”.

L’altra cosa che mi ha colpito molto è quando hai detto che “in carcere tendete a dribblare il dolore”…
“Ti faccio un esempio stupido: noi donne cerchiamo di non guardare riviste di moda, di non guardare film dove parlano di storie di bambini, cerchiamo di non ascoltare certe canzoni che ci riportano fuori. Cioè, qua cerchi di vivere non ricordando l’esterno. Anche adesso, nelle giornate soleggiate, cerchi di guardare il meno possibile fuori”.

Ma quelle privazioni, un film una rivista una bella giornata il sole, sono cose buone in sé…
“E’ una privazione per evitare di soffrirne la privazione…eviti il dolore il più possibile… Anche perché, come dico alle mie compagne, io cerco non di sopravvivere, ma di vivere, perché comunque è importante un giorno di vita!”

Che differenza c’è?
“Vivere è entusiasmarsi anche per una piccola cosa; ad esempio, oggi la mia compagna di cella mi ha portato dei libri da leggere e questo mi ha dato entusiasmo, mi ha dato uno stimolo. Poi mi ricordo sempre le parole di mio padre: non andare mai a letto senza aver imparato qualcosa di nuovo.
Il sopravvivere invece è alzarsi sempre apatici, fare sempre le stesse cose, non provare entusiasmo per niente”.

Questo è frequente?
“Sì, la maggior parte parla di sopravvivenza. Io continuo a ripetere: è vita! Specialmente dopo che abbiamo sentito quello che succedeva fuori: Coronavirus, malattie più gravi… Ogni giorno è importante. Anche se non sono praticante, io sono molto credente…”

Questo ti aiuta?
“Che cosa, Dio o il vivere?”

Essere credente…
“Beh, Dio è con me, anche perché altrimenti non riuscirei a sopportare…qua la difficoltà è la convivenza. Con altre etnie, culture, modi di essere. Se non avessi Dio, se non avessi questa voglia di vivere, perché…io voglio vivere… Per le piccole cose cerco di entusiasmarmi…dribblo il dolore e cerco la serenità”.

Hai detto una terza cosa l’altra volta: che magari per capriccio qualcuno non aveva voglia di scendere per l’incontro…inizialmente hai detto capriccio, poi hai detto pigrizia… C’è differenza, la pigrizia forse rientra in quell’apatia di cui parlavi…
“Il capriccio è dovuto al fatto che alcune di noi soffrono per mancanza di…pubblicità! Il capriccio è perchè vuoi che la compagna ti presti attenzione e ti dica: “dai, vieni, senza di te non mi diverto…ho bisogno di te, ci divertiamo insieme, fa piacere anche agli esterni vederti…” “Così crei importanza alla persona… La pigrizia invece è: che palle, devo mettermi le scarpe da ginnastica, magari fa freddo, magari fa caldo, sto qua, guardo la televisione, e solite cose…”

Quindi tu hai davanti ancora alcuni anni…
“No, no…io in teoria è da luglio scorso che aspetto di uscire; un mesetto fa è stata spedita la mia istanza e sto attendendo il responso del giudice…perchè, dato il mio comportamento, si hanno dei premi, ogni 6 mesi hai 45 giorni di libertà anticipata, se non commetti…scorrettezze”

Quindi stai aspettando di uscire!
“In teoria sì. Poi, in pratica, te l’ho detto: è da luglio che aspetto. L’educatrice mi ha detto così, ma poi c’è stato tutto il problema del Covid. Io devo avere un lavoro fuori: qua lavoro, ma è difficile avere la possibilità di un lavoro esterno. Col Covid – posso capire – rimangono senza lavoro le persone non detenute, dunque per me è più difficile”.

Che lavoro fai lì? C’è una fabbrica dentro?
“Faccio l’operaia. E’ parecchi anni, dal 2016, che lavoro per questa ditta all’interno del carcere, che fa assemblaggio. Si è fermato un po’ tutto con il Covid…infatti lavoriamo saltuariamente, però c’è questa azienda che ci aiuta molto ad uscire in preaffidamento e in affidamento, quando ti manca poco e hai un certo tipo di comportamento. E naturalmente se hai una casa. Io ho una casa del Comune, ho sempre pagato l’affitto, ci ho sempre tenuto ad avere un tetto sulla testa! Poi mi hanno aiutato gli educatori, perché è complicato avere contatti con l’ALER, con il Comune, eccetera…se non avessi avuto loro…”

Quindi vedi un po’ anche la luce in fondo al tunnel…
“Sì, vedo la luce…però, se anche avessi un no dal giudice va bene, ho fatto trenta farò trentuno, non è questo… Mi spiace che il mio compagno rimane qua…”

Ma lì potete vedervi?
“Allora, noi siamo una delle coppie che stranamente lavorano insieme!
“Non abbiamo contatto fisico, giustamente, però ho sempre avuto colloqui con lui; anche quando si trovava in un altro carcere, una volta al mese…. Non posso lamentarmi. Certo, non c’è il contatto fisico, ma…diciamo…ho anche una certa età, sarebbe assurdo farmi riprendere per…”

Senti, visto che il lavoro che stiamo preparando andrà in mano a dei ragazzi, gli studenti della Laba, che cosa vorresti dire a questi ragazzi, dopo l’esperienza che hai fatto? Sei grande, potrebbero essere tuoi figli…
“La stessa cosa che dico ai nipoti della signora di cui ti ho parlato: ragazzi, state attenti a non essere ingenui, a non far favori a gente ambigua; non fate uso di droga, perché vi toglie più di quello che vi dà. Magari sembra che dia entusiasmo, ma se ne vedono tanti di ragazzini giovani che si bruciano il cervello. Il mio terrore è quello… Io ho fatto uso di droga, lo confesso, anche se erano già dieci anni che non ne usavo più perché non mi dava quello che cercavo. Oggi ci sono in giro tante porcherie… La mia preoccupazione sono i ragazzi di oggi: ai miei tempi c’erano più cose, oggi vedo la società molto degradata e sono veramente preoccupata…”

Perchè dici che non devono essere ingenui?
“Forse perché è capitato anche a me, che han chiesto dei favori… e dopo mi son trovata nei pasticci… A 16-17 anni si pensa di poter fare delle bravate che non portino conseguenze. Invece i nodi vengono al pettine. Vorrei solo dire di stare attenti, perché il carcere ti porta via tutto. E vieni segnato per tutta la vita, per qualsiasi cosa: sia per il lavoro, perché hai sempre la fedina penale sporca, e poi il carcere veramente è duro, ci sono realtà che neanche ti immagineresti… E tanto di cappello agli assistenti e agli agenti, anche quelli che ci sono qua, sempre attenti.
Io fortunatamente o sfortunatamente non ho figli, perché altrimenti starei con un’ansia tremenda: vedo troppe ragazzine che…sono qua in condizioni estreme, per
droga, per sciocchezze, perché vengono accusate di rapina solo per aver preso una birra e magari aver maltrattato una persona. Sono cose assurde. Lo so, può capitare di passare col semaforo rosso, però se ci sono delle norme e delle regole è per il bene comune, vanno accettate: non è a essere fanatici che si risolvono le cose”.

Sarebbe bello aver la possibilità di diffonderlo, questo tuo appello, perché è veramente accorato…
“Io non sono capace ad esprimermi, ma andrei nelle scuole a spiegare questa mia esperienza. So che a 17 anni non si ascolta, però se si ha un po’ di cervello…”

L’altra volta hai sottolineato il fatto che lì non riusciate più a usare le parole, invece tu hai usato le parole in modo molto efficace e allora volevo andare a scavare per vedere che cosa c’era dentro/dietro.
“Grazie…volevo – se non faccio perdere tempo – fare un saluto particolare a Giulia e a tutte le persone che ci hanno seguito e che purtroppo, con la faccenda del Covid, non abbiamo potuto rivedere”.

Sicuramente, lo farò. Ti faccio tantissimi auguri per quella faccenda che stai aspettando, perché vada in porto bene…e per il tuo futuro.
“Grazie a te, e grazie per la pazienza.

*Per ragioni di privacy il nome Arianna è di fantasia

 

Anno 2021 | Progetto Verziano 11^ edizione
Raccoglitrice di storie: Francesca Bernacchia

Circolo di scrittura e cultura autobiografica di Brescia
LUA Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari

La rubrica Sguardi attraverso è creata nell’ambito del Progetto Verziano 11^ edizione, realizzato da Compagnia Lyria e Ministero di Giustizia Casa di Reclusione Verziano Brescia, grazie al contributo di Comune di Brescia, Provincia di Brescia, Fondazione Comunità Bresciana, Ordine degli Avvocati di Brescia, Centrale del Latte di Brescia e in collaborazione con LABA Libera Accademia Belle Arti, LUA Libera Università Anghiari-Circolo di Brescia, Palazzo Caprioli, APS Libertà@Progresso e Istituto Lunardi. Gode del patrocinio di Fondazione ASM, AIIMF Associazione Italiana Insegnanti Metodo Feldenkrais e Consigliera di Parità della Provincia di Brescia.

Sguardi Attraverso | Testimonianza di un detenuto

IL GIGANTE ALTRUISTA

Tutto è iniziato nel settembre del 2019 grazie alla mia ragazza:
lei mi ha chiesto di iscrivermi al corso di danza Lyria,
corso che lei già frequentava.
Tutto è iniziato perchè ero curioso,
ed ero desideroso anche di stare del tempo con lei.
Mi sono iscritto.
Tutto è iniziato quando ho conosciuto Giulia, ad ottobre,
quando ho partecipato ad una riunione:
c’erano Valentina, Susi (che io chiamo “mami”)
e una ragazza alta.
Io sono alto. Subito ci siamo affratellati:
ci siamo soprannominati “ i giganti buoni”.
E’ stato bello, sin dal primo giorno.

Vedere una danza diversa
Vedere i movimenti che ogni giorno fai
diventare gesti di danza
Vedere la mia fidanzata,
che era possibile divertirsi,
che si poteva imparare

Iniziare partendo da esercizi per sciogliere i muscoli.
Iniziare dal proprio corpo:
collo, schiena, gambe, ginocchia, piedi, gomiti,
Iniziare dallo stretching
Iniziare:
mento che va su, occhi che vanno giù
mento che va giù, occhi che vanno su
Iniziare a mettersi in gioco

Dimenticare
le telecamere che ti registrano
Dimenticare come se la ridono gli assistenti vedendo un gigante di due metri
che danza come una ragazzina
Dimenticare la vergogna, le ore che passano, la paura, i brutti pensieri

Sentire
che i gesti di ogni giorno prendono una nuova forma,
un nuovo significato.
Sentire il contatto, pelle a pelle,
le mani di Giulia che con delicatezza ti portava,
ti prendeva le mani.
Sentire che potevamo sfiorarci,
accarezzarci, toccarci, stare vicino.
Sentire la vicinanza della mia fidanzata,
l’attaccamento,
la necessità imposta di dover stare distanti,
di dover stare con gli altri.
Sentire che insieme potevamo divertirci,
pranzare, giocare,
stare seduti vicino,
muoverci, danzare,
imparare nuovi gesti,
nuove possibilità.
Sentire che nel cuore
si imprimevano indelebili momenti forti,
nuovi sentimenti.

Avevo già vissuto
esperienze di animatore negli spettacoli viaggianti del nostro Luna Park.
Avevo già imparato a stare con gli altri,
a stare con bambini, a stare anche con gli adulti, a guidare il gruppo.
Avevo già vissuto l’esperienza della forza della musica,
sono nato con la musica, sono “matto” per la musica,
avevo suonato nell’orchestra,
avevo guidato, ondeggiato le persone che ballavano boogie-boogie o latino che fosse.
Avevo già vissuto la bellezza del ballo.
Mio papà è bravo a ballare,
mia mamma…anche lei,
i miei fratelli e le mie sorelle ballano,
danza moderna, musica latina,
adesso va il “ Reggaeton”
loro, i ragazzi giovani, ballano il reggaeton.
Avevo già vissuto la forza della danza,
la rivelazione attraverso i gesti, di quanto può essere grande una persona.
L’osservazione dei dettagli, della postura dell’altro,
dei suoi comportamenti, degli atteggiamenti, dei movimenti,
può far capire una persona.
Avevo già vissuto la paura di non essere bravo a ballare,
la timidezza di fronte agli altri.
Per ballare in discoteca dovevo prima ubriacarmi, per mettermi in gioco.
Ora, non più.

Mettersi in gioco
questo ho imparato.
Ora danzo con l’acqua naturale,
non ho più bisogno di nascondermi dietro una maschera.
Mettersi in gioco:
questo ho sperimentato con la Compagnia Lyria.
E’ molto importante per me.
Ho ricevuto apprezzamenti, ho capito che posso, che sono bravo, che l’arte fa per me, che la danza è il linguaggio del mondo.
Mettersi in gioco, lavorare insieme.
Impegnarsi senza avere paura di sbagliare,
comprendere le parole di Giulia: “non siamo nati maestri”,
giocare le regole della vita con il gruppo,
imparare che si può fare un errore, che tutti possono sbagliare,
che si può ricominciare.

Ricominciare
a danzare con la Compagnia Lyria, quando sarò uscito,
quando avrò trovato un lavoro, una casa per me e mia moglie,
quando potremo vederci davvero.
Ricominciare a partecipare agli incontri di danza
Sarà bello, dopo avere trovato una sistemazione, una nuova stabilità.
So che dovrò rimboccarmi le maniche, perché in questi anni dentro ho perso il mio contratto di affitto.
Dovrò ricominciare

Papà
non mi ha visto danzare; lo spettacolo è stato sospeso al cinema Eden.
Era previsto per marzo-aprile, sospeso per la chiusura dettata dall’emergenza sanitaria.
Papà non mi ha visto:
già pregustava delle belle risate mi prendeva in giro dicendo:
“Vorrei vederti con il tutù”.
Pensava che avrebbe visto me e tutti gli altri con la calzamaglia e che avrebbe riso vedendoci.
Mi minacciava: “Non vengo più a trovarti”.
Scherzava.
Se avesse visto davvero lo spettacolo non avrebbe riso.
Forse no.
Papà,
mi è andata di lusso
mi è andata di lusso
mi è andata di lusso,
ho evitato il rischio
di vederlo ridere…o piangere di gioia?
Papà mi vuole bene
Mi dice:
“Sei un bambinone”
“Hai un cuore d’oro”
“Al posto del cuore hai uno scrigno di brillanti”
“Hai un cuore purissimo”.

Io sono Adriano,
per gli altri sono il Gigante Buono, l’Orso abbraccia-tutti, il Bambinone.
Io sono Adriano, ho qualche soprannome.
Io sono Adriano, mi piace scrivere.
Sono di tante sorprese,
Ho iniziato a riscoprire le mie risorse, le mie capacità, qui dentro, con il tempo.
Io sono Adriano.
Inceppi non ne ho mai incontrati nel corso di danza.
Io sono Adriano e quando incontro un inceppo,
quando sono triste, quando sono pensieroso, quando sono arrabbiato, quando sono geloso, quando sono scorbutico, quando sono in difficoltà,
faccio una riflessione, un ragionamento tra me e me.
Mi metto in una posizione che mi permette di non mostrare i miei sentimenti profondi.
Rido, scherzo con gli operatori esterni, adotto l’atteggiamento necessario
per non essere richiamato, per stare in pace con tutti.
Io sono Adriano; vivo bene così.

Partecipare
far parte del gruppo di danza mi toglieva dalle preoccupazioni, dai pensieri,
dagli ostacoli che si incontrano nell’arco della giornata, qui, nella struttura.
Partecipare e desiderare di realizzare quello che avevo visto fare due anni prima negli spazi esterni alla struttura.
Avevano fatto la danza all’esterno, le registrazioni, il video.
Avevano fatto le riprese nel campo, nello spazio della cooperativa di lavoro, una bella esperienza:
avrei voluto farla anch’io.
Il tempo è stato contro di noi.
Il fattore Covid ha giocato un brutto scherzo, non siamo riusciti a realizzare il DVD.
Partecipare all’ora di danza è stato così bello che mi portava a desiderare
più lezioni, più ore, più domeniche insieme, come è successo il 16 febbraio 2020.
Partecipare alla danza del gruppo, al pranzo insieme e condividere le pizzette a forma di cuore, quaranta che io ho preparato, sono un ottimo cuoco, per la mia Hava, per tutti.
Partecipare del gradimento che hanno avuto, essere contenti di condividere
le buone cose che tutti hanno portato.

Partecipare al brindisi, anche solo con acqua,
contenti delle ore di spensieratezza, di vicinanza, di convivialità.
Partecipare alla seduta di danza prima di Natale, fare gli auguri, ringraziare,
salutare Giulia, Valentina, Lucia.
Augurare buone vacanze a loro che poi sarebbero partite.

Scendere
nella palestra attrezzata con tappeti di gomma per attutire le cadute,
spostare gli attrezzi, i macchinari per i pesi, liberare lo spazio per essere liberi di muoversi.
Era bello.

Salire dopo la danza era sempre doloroso.
Ero più pensieroso, sentivo il peso delle giornate che mi avrebbero separato
dall’incontro prossimo, con tutti gli ostacoli e le difficoltà che avrei incontrato.

Chiudere
con il lockdown le porte della struttura dopo il 17 febbraio, ultima seduta di danza, è stata una ferita.
Chiudere la possibilità di incontrare la mia donna, i miei amici, il gruppo di danza, è stato doloroso.
Chiudere, impedire ad altri di entrare nella struttura:
Perchè?
Ogni giorno le guardie penitenziarie, gli agenti di polizia, entrano ed escono,
possono portare il virus.
Perchè impedire a persone che possono essere controllate, vaccinate, di entrare e non consentire a noi di passare insieme quell’ora, quelle due ore,
che possono renderci felici?
E’ stata dura da accettare.

Sperare
di potersi re-incontrare, magari poter prendere un caffè insieme.
Sarebbe bello.
Sperare che passi in fretta questo tempo di chiusura e isolamento, questo ultimo periodo dentro, presto uscirò, manca poco.
Sperare di trovare fuori la strada giusta, il lavoro, la casa, la serenità, la famiglia, la mia famiglia.
Sperare senza perdere la certezza che tutto andrà bene.
Tenere con noi la speranza, ogni giorno, fino alla fine.
Non perdere se stessi, non perdere la fiducia.

Tornare bambini
con la Compagnia Lyria era possibile.
Tornare bambini vuol dire ricominciare ad imparare
Vuol dire avere fiducia in chi ci guida
Vuol dire aver voglia di giocare
Vuol dire essere contenti di stare con gli altri, con chi dedica il suo tempo a noi che siamo dentro
Vuol dire saper provare gratitudine verso coloro che lasciano i loro affari, negozi, famiglie, per condividere con noi del tempo prezioso di libertà, di creatività, di arte.
Tornare bambini vuol dire non avere malizie, non avere paura
Vuol dire aprire le braccia verso coloro che sentiamo accoglienti, disponibili all’incontro.
Vuol dire non avere pregiudizi, non alzare, i muri della diffidenza.
Tornare bambini vuol dire apprezzare ciò che la vita dà.

La poesia
come la danza, è una forma d’arte che mi appartiene.
Mi è piaciuto, mi è piaciuto molto danzare con la Compagnia Lyria.
E’ stata una esperienza bella; sono pronto a garantirlo anche per gli altri ragazzi, che sarà una bellissima esperienza.
Se vorranno imparare.
E’ una cosa stupenda: stai in contatto con un gruppo meraviglioso e sei consapevole che le persone che entrano da noi lasciano i loro impegni e magari il loro negozio, hanno anche loro problemi, una famiglia.
Però vengono a danzare quelle due o tre ore con noi con uno spirito di servizio.
La poesia, come la danza, è arte, è il linguaggio del mondo.
Unisce, mette in comunicazione ogni essere.

Scrivere
mi piace.
Valentina ha creato occasioni di scrittura importanti.
Scrivere mi piace, so farlo, seguo un mio schema e qualche volta ho aiutato
i miei compagni che non se la cavavano bene con la penna, mentre io non avrei smesso mai, finché c’era tempo.
Scrivere mi piace.
Eppure è la bellezza di tre anni che io non scrivo una lettera a mio papà;
non scrivo per mia scelta.
Così come ho chiesto loro di non scrivermi perché se magari scrivessero
che qualcosa non va, starei male, mi metterei a piangere.
Allora preferisco tenermi il dolore della distanza, dentro di me, sentendomi tramite telefono, videochiamata, sentendo che stanno bene.
Scrivere è un gesto più intenso, più sincero e profondo.

Io mi ricordo
una storia che Valentina ci aveva fatto scrivere.
Ci ha dato un foglio con una parola a me ha dato un foglio.
C’era scritto “Abbraccio”
Dovete scrivere la definizione: “che cos’è un abbraccio?”
Io ho scritto: “per me l’abbraccio è…mio fratello”,
e ho raccontato una storiella che tanti anni fa ho vissuto con mio fratello.
Ho cominciato così:
“Ciao sono Adriano, ho 35 anni, e vi racconto questa storia accaduta in Valpolicella, in provincia di Verona, a Pedemonte, nella zona dei vini.
E parlavo di mio fratello, del giorno in cui siamo andati a pesca.
Mio fratello non era capace di pescare e io …me la cavavo…
Cosa abbiamo fatto…visto che i pesci non abboccavano?
Ho detto: “Dai Antony, lascia stare che ce ne andiamo” (adesso io te la racconto un po’ più easy)
Ho detto: “lascia stare che ce ne andiamo” … e… ha abboccato un pesce!
Sulla canna mia.
Era un pesce molto bello, perché era una carpa, “amur” così si chiama,
un pesce grande che mangia solamente l’erba.
L’ho pescata.
E lui, appena siamo arrivati a casa da papà:
“Papà, papà, guarda cosa ho pescato, guarda cosa ho pescato! Adriano non ha preso niente”
Si è preso lui i meriti, e papà fa:
“Adriano, tuo fratello è diventato più bravo di te!”
In cuor mio ero contento che mio fratello raccogliesse tanta considerazione.
Perchè gli voglio bene, è il mio bambinone.
Adesso sono quasi dieci anni che con mio fratellino non vado più a pesca;
spero di farlo molto presto, perché so che il prossimo anno sarà possibile.
Spero di godermi ogni momento che ho perso con lui, perché lui è il mio cucciolo, il mio bambino, e … saluti a tutti e abbracci.

Io mi ricordo che ho scritto, poi, una storiella con la signora che io chiamavo “Mami”.
Il suggerimento era: “Una passeggiata”.
Io mi ricordo tutti i particolari di quello che ho detto,
ho una buona, buonissima memoria.
Il titolo che mi ha proposto era: “Sentieri”.
Ho scritto:
Sentiero,
il sentiero di una passeggiata,
il rumore delle foglie,
i passi di due ragazzi,
un uomo e una donna, che si incontrano, si uniscono, e fanno una passeggiata.
Pensieri
il pensiero di una storia, che può nascere, un amore.
Pensiero di ritrovare un fratello,
una famiglia, una madre, un padre,
Pensieri
la vita è un pensiero, la gioia, il dolore, ma l’amore non termina mai.

La famiglia
è tutto per me.
Tre anni fa facevo parte del gruppo di teatro, ma da quando hanno inserito
nelle attività di teatro il “giorno delle famiglie” (ogni due martedì entravano madri e bambini) mi sono fatto da parte.
Ho lasciato lo spazio alle famiglie, ho preferito pensare ai papà e alle mamme
che giocavano con i loro bambini, un’ esperienza preziosa per chi è separato dalla famiglia per lungo tempo.
Mi sentivo il terzo incomodo, allora ho preferito non più frequentarlo…
Mi è dispiaciuto. Ho rinunciato, pur sapendo che avrei avuto belle occasioni
di uscire dalla struttura, che avrei potuto andare a Cremona, a teatro, a Brescia.
Avrei potuto uscire tre volte all’anno.
L’ho fatto perché se una mamma viene qui con il bambino e c’è suo marito, stanno tutti insieme, due ore insieme in più ed io preferisco che il bambino,
ogni bambino, stia bene.
La famiglia è un valore centrale per me.
Non sono padre, però sono zio e ho dei bellissimi nipoti; sono tutti piccoli.
Io coi miei nipoti ci giocavo; voglio loro un mondo di bene, però non sono come figli.
Il mio desiderio di essere chiamato “papà” sembrava finito quindici anni fa,
quando Ryan non era riuscito a nascere; ma ora la figlia di mia moglie,
mi manda un disegno dove la sua mano di bambina rappresenta noi tre
e dice: io, te e la mamma. Mi mostra le fotografie e mi chiama “papà” e il mio cuore torna a vivere e dico a me stesso: “Questa è la vita”.
E sono contento!

*Per ragioni di privacy il nome Adriano è di fantasia

 

Anno 2021 | Progetto Verziano 10^ edizione
Raccoglitrice di storie: Ludovica Danieli

Circolo di scrittura e cultura autobiografica di Brescia
LUA Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari

La rubrica Sguardi attraverso è creata nell’ambito del Progetto Verziano 11^ edizione, realizzato da Compagnia Lyria e Ministero di Giustizia Casa di Reclusione Verziano Brescia, grazie al contributo di Comune di Brescia, Provincia di Brescia, Fondazione Comunità Bresciana, Ordine degli Avvocati di Brescia, Centrale del Latte di Brescia e in collaborazione con LABA Libera Accademia Belle Arti, LUA Libera Università Anghiari-Circolo di Brescia, Palazzo Caprioli, APS Libertà@Progresso e Istituto Lunardi. Gode del patrocinio di Fondazione ASM, AIIMF Associazione Italiana Insegnanti Metodo Feldenkrais e Consigliera di Parità della Provincia di Brescia.

Sguardi Attraverso| Testimonianza della Direttrice della Casa di Reclusione Verziano Brescia D.ssa Francesca Paola Lucrezi

Quasi per caso

Mi chiamo Francesca Paola Lucrezi e sono la direttrice della Casa di Reclusione di Verziano.
La casa di reclusione prende il nome dalla via Verziano che è parte del quartiere Fornaci del Comune di Brescia. Un paesaggio rurale circonda la casa circondariale. Fornaci è un borgo di origine contadina che pur modernizzato, non ha perduto i suoi tratti distintivi. La frazione, situata a sud della città, sulla strada per Quinzano e Cremona, è così chiamata per la presenza di antiche fornaci nate su un terreno particolarmente argilloso, grazie ai sedimenti portati dalle acque del Garza.

Sono arrivata a ricoprire il ruolo di Direttrice per caso. Appena aver conseguito la laurea in giurisprudenza avevo iniziato a lavorare come apprendista in uno studio legale e contemporaneamente continuavo a studiare per prepararmi ai diversi concorsi pubblici. Partecipai a diversi concorsi e li superai; tra questi quello di Collaboratore di istituto penitenziario, come, in quegli anni, veniva definito il ruolo privo di una nomenclatura precisa. Avevo 27 anni. Quindi mi trovo a vincere il concorso e mi dissi “Sì iniziamo questa avventura”. Assunsi il ruolo di vicedirettrice dell’istituto penitenziario.

Fui assegnata a Verziano ma la direzione comprendeva anche la casa circondariale di Canton Mombello. Era il 1997.

Ricordo il mio entusiasmo e curiosità degli inizi. Una giovane donna con il desiderio di mettersi al lavoro. L’impatto con il contesto non fu semplice, la realtà era complessa, ma non piegò il mio desiderio di assumere nella pienezza questa professione.

Giorno dopo giorno, se guardo il tratto di strada da me percorso, ho costruito il mio lavoro facendo tesoro dell’esperienza quotidiana. Mi sono misurata con tante situazioni molto diverse fra loro e le problematiche che esse comportavano; dalle più semplici a quelle più complesse. Dalla gestione di un’organizzazione alla dimensione di un confronto costante con esperienze umane le più diverse. Se questo lavoro è arrivato grazie ad un concorso, quindi per caso, posso dire di averlo poi scelto nella pienezza di una personale consapevolezza. A 25 anni di distanza da quella prima volta, se guardo a questa esperienza, nel panorama delle professioni che avrei potuto intraprendere come laureata in giurisprudenza, vedo l’unicità che lo contraddistingue. Un lavoro che arricchisce quotidianamente; in 25 anni non c’è stato un solo giorno uguale a quello precedente o successivo perché le situazioni soggettive, le persone con cui si entra in relazione, sia dal punto di vista professionale con dipendenti e collaboratori, sia dal punto di vista delle persone in custodia, sono singole umanità verso le quali è necessario costruire modalità relazioni distinte. Anche il contesto storico, sociale e politico si riflette precisamente in un ambiente come questa istituzione. Questa condizione risulta un arricchimento costante. L’approccio che mi ha guidato è di essere entrata con molta cautela, con gradualità, con tantissima umiltà. È questa un’attività per cui la preparazione che avevo maturato in università, i numerosi corsi di specializzazione accumulati, non sembrava essere abbastanza. Entra in gioco una postura personale e si misura con la propria capacità di portare costantemente ad un equilibrio un sistema molto molto complesso dove al suo interno agiscono, gestiscono e partecipano una pluralità di persone con ruoli diversi più o meno istituzionali, collaborazioni con il territorio. Un paesaggio plurale dove l’esperienza che si matura sul campo e la capacità di tenere insieme tale molteplice diversificato è, a mio parere, l’aspetto professionale fondamentale.

Il carcere e il territorio riescono a incontrarsi

Quando nel 1997 ho iniziato a lavorare, la realtà era molto diversa, anche rispetto all’ingresso della comunità esterna all’interno del carcere. Non perché Brescia non fosse già allora un territorio disponibile a collaborare. Anzi il terreno era già stato sollecitato in tal senso. Il Tribunale di Sorveglianza di Brescia, nella persona dell’allora Presidente Dr. Zappa, ha costruito le basi sulle quali noi ancora oggi procediamo. Una pietra miliare nel nostro contesto che ha aperto vie importanti. Poi l’amministrazione penitenziaria che gradualmente ha aperto al territorio e sono iniziate collaborazioni più proficue con progetti diversi e innovativi. Io fin da subito, quando ho iniziato a mettere bene a fuoco cosa stavo facendo e dove, ho sempre ritenuto che l’apertura di questa istituzione al mondo circostante fosse necessaria, obbligata. Non aveva alcun senso intendere il suo ruolo solo come vigilanza e custodia di persone che non hanno libertà. Un concetto che anch’io stessa non avrei mai potuto accettare. Pensare al carcere solo come vigilanza e custodia non era nemmeno nella mia visione di significato ed operativa. Per fortuna sono arrivata in un territorio come quello bresciano e le occasioni si sono succedute sempre di più.

Il progetto proposto e poi condotto da Compagnia Lyria a Verziano nasce nel 2010. Un cammino che nasce anche grazie a chi mi aveva preceduto nella direzione di questi istituti in particolare di Verziano che, in quegli anni, era separato dalla casa circondariale di Canton Mombello. Una realtà di reclusione, quella di Verziano, diversa dalla casa circondariale, con altre esigenze, con un’altra vocazione.

La casa di reclusione di Verziano, sin da quando è stata aperta nel 1987, in particolare, ha sempre visto un regime di totale apertura delle stanze detentive cosa che, all’epoca, non avveniva in nessun altro istituto in Italia. Quindi sicuramente, all’inizio, anche un po’ di preoccupazione rispetto alla capacità di reggere questo imprinting di continua innovazione e sperimentazione che credo sia proprio la caratteristica e la natura di questo istituto. Timore anche rispetto alla mia capacità di mettere a frutto la necessaria fantasia per pensare, per ideare progetti nuovi che corrispondessero a quella che era la missione istituzionale. Sorprendentemente si è rivelato molto più semplice. Ci sono stati anni bellissimi; in particolare dal 2010 al 2015 abbiamo avviato progetti sperimentali che poi sono stati anche trasferiti in altri istituti come esempio di buone prassi. Il progetto di danza con Compagnia Lyria è uno di questi ed ha maturato ben 12 anni di esperienza.

Tutto questo è stato estremamente stimolante. Per noi operatori e credo anche per chi, nel mondo del volontariato e del terzo settore, si interfacciava con noi e sicuramente proficuo sia per i detenuti che per i cittadini che hanno partecipato alle attività e che hanno avuto l’occasione di entrare in questa istituzione totale di cui spesso si dice tanto, che si giudica tanto, senza averne una diretta conoscenza.
Progetti fruttuosi rispetto al pregiudizio poiché solo conoscendo la realtà, incontrandola da vicino è possibile farsi una opinione personale. Sono convinta di una cosa: le nuove generazioni attraverso la scuola, dovrebbero essere accompagnate a conoscere da vicino questa nostra realtà proprio per smascherare i preconcetti che ruotano attorno all’istituzione carceraria e approfondire la conoscenza di questo mondo complesso. Finché parliamo noi addetti ai lavori spesso non riusciamo ad uscire da quella sorta di autoreferenzialità che in qualche maniera ci portiamo dietro. Quanto più si riesce a contaminare, a creare scambio, gettare semi che poi ciascuno può far germogliare dal punto di vista culturale, tanto più può maturare una nuova idea di carcere.

La danza a Verziano

Danzare, è lottare contro tutto ciò che ci trattiene,
tutto ciò che ci affonda, tutto ciò che pesa e appesantisce,
è scoprire con il proprio corpo l’essenza,
l’anima della vita, è entrare in contatto fisico con la libertà
(Jean-Louis Barrault)

Amo la danza come arte e come disciplina e, nelle mie esperienze personali, ho potuto comprendere tutti i benefici della danza intesa come disciplina. Introdurre all’interno di un istituto penitenziario tale disciplina non è impresa semplice per tanti motivi. In particolare la proposta di Compagnia Lyria che non è di immediata lettura; è una attività di danza che va vissuta, interpretata, capita per poi essere restituita al pubblico.

Inoltre l’umanità detenuta è varia sia dal punto di vista anagrafico, sia da un punto di vista culturale, delle esperienze e anche delle condizioni fisiche rispetto ad una prestazione che coinvolge propriamente il corpo. Questa forse era stata la mia unica preoccupazione che avevo partecipato a Giulia Gussago nel nostro primo incontro. Mi piacque la risposta che mi diede, facendomi intendere che la sua esperienza aveva coinvolto persone anche con disabilità motorie e che tuttavia danzavano. Capii che mi trovavo davanti la persona giusta per iniziare un nuovo progetto che non fosse estemporaneo e quindi fine a sé stesso ma che ci fosse la voglia, la volontà e l’idea di affrontare tale disciplina con un approccio profondo ed educativo da svilupparsi nel tempo. La danza, in questo caso, diventava uno strumento, anche per i detenuti, per analizzare sé stessi nel qui e nel dove.

Il carcere è un luogo fisico che rappresenta anche un non luogo. Un posto dove le persone vengono ristrette contro la loro volontà per esecuzione di un provvedimento giudiziario. Lo spazio non è vissuto ma è subìto; analogamente il tempo diventa una bolla in cui le persone recluse vengono immesse e con cui devono imparare a prendere contatto. I detenuti e le detenute hanno una sfida da assumere che è provare a modificare il rapporto sia con lo spazio che con il tempo. Questi progetti diventano, molte volte, la chiave per aprire altre porte; porte di trasformazione, di riflessione, di maturazione che è lo scopo che l’amministrazione penitenziaria si pone assumendo progetti come questo della danza.

L’intuizione è stata buona. Nel corso degli anni Compagnia Lyria ha continuamente aggiornato le proposte all’interno del progetto, mettendo a fianco all’espressione corporea anche un approfondimento di natura culturale, letteraria, espressiva, fotografica, cinematografica. Piano piano il progetto è cresciuto.

All’inizio era rivolto solo alla sezione femminile; anche in questi due anni è solo per la sezione femminile a causa delle restrizioni Covid 19. Ma prima del periodo dell’emergenza sanitaria c’è stata la partecipazione dei detenuti accanto alle detenute e questo è stato un ulteriore passaggio assolutamente non scontato e unico. Perché quel contatto, con la consapevolezza del proprio corpo e della propria fisicità, a quel punto, non era soltanto un’esperienza individuale ma diventava relazionale in un ambito, come quello carcerario in cui la relazione, soprattutto fra generi diversi, si interrompe. Ricucire una naturalezza, se pur nel gesto della danza, di comunicazione corporea tra un detenuto e una detenuta è una enorme sfida che può portare a grandissimi risultati. Non abbiamo mai rilevato problematiche di gestione. I detenuti e le detenute hanno compreso e si sono sempre mostrati responsabili e seri in quello che andavano a fare perché riconoscevano l’importanza e il valore del progetto. La cosa si è arricchita ulteriormente con l’ingresso dei cittadini: persone esterne al carcere che per un tratto sperimentavano un percorso di danza all’interno del carcere, nello stesso gruppo dei detenuti e detenute. Una mescolanza che andava al di là del genere e che diventava una comunicazione attraverso la danza tra chi era libero e chi in quel momento non lo era.

La prima volta

La danza è poesia perché il suo fine ultimo è esprimere sentimenti,
anche se attraverso una rigida tecnica.
Il nostro compito è quello di far passare la parola attraverso il gesto.
(Carla Fracci)

Mi ricordo precisamente la prima restituzione al pubblico anche perché le prime volte non si scordano. Sono molto affezionata a quella prima. Danza e recitazione sul tema della maternità, del rapporto con i propri cari lontani, cosa comportava, cosa aveva tolto e come trovare il senso di quello che si stava vivendo e soprattutto l’intenzione a ricominciare. È stato bellissimo. Ricordo i volti emozionati di alcune persone appartenenti all’istituzione e che avevamo invitato. Eravamo nella palestra ristrutturata da poco anche grazie all’associazione di cui il Dottor Piovanelli allora era il presidente. Una grande emozione fra tutti i convitati. Grande sorpresa rispetto ad un prodotto di qualità.

Dopo quella prima abbiamo presentato il progetto a tutta la popolazione del carcere che non aveva partecipato e la reazione è stata di entusiasmo totale. E proprio i maschi chiedevano perché questo progetto non fosse rivolto anche a loro. Da lì l’idea di provare ad estenderlo anche ai detenuti. Un progetto di danza rivolto ai maschi, in questo ambiente, non è affatto scontato.

Questo ha portato la danza dentro alla casa di reclusione come una modalità di stare insieme. La danza come conoscenza di sé e dell’altro.
Il progetto è stato poi portato all’esterno nella manifestazione Danza al parco promossa dal Comune di Brescia.

Gli anni successivi abbiamo iniziato ad allestire il lavoro finale nel campo sportivo dell’istituto di Verziano. Un ricordo fotografico del primo anno: la lunghissima fila di auto intorno alla struttura del carcere; gli spettatori saranno stati più di duecento. È stata una enorme emozione.

La speranza

La stessa corrente di vita
che scorre nelle mie vene,
notte e giorno scorre per il mondo
e danza in ritmica misura.
E’ la stessa vita che germoglia
gioiosa attraverso la polvere
negli infiniti fili dell’erba
e prorompe in onde tumultuose
di foglie e di fiori.
(Rabindranath Tagore)

Nutro la speranza che dalle buone prassi e dalle esperienze locali si possa incidere anche su quelle che sono le politiche dell’amministrazione penitenziaria. È fondamentale. Io credo nelle piccole rivoluzioni che nascono dal basso piuttosto che dalle grandi modifiche imposte dall’alto. Ho sempre anche molto sentito la responsabilità di questo aspetto. Credo che il nostro ruolo sia di cura sia nei confronti della popolazione del carcere sia nei confronti della cittadinanza esterna. I progetti di qualità si possono fare e si devono portare avanti. Serve un lavoro di compartecipazione fra tante realtà che abitano e operano in un territorio. È importante, nella mia progettualità, creare continuità e collaborazione. È imprescindibile un lavoro insieme poiché la sola istituzione penitenziaria non potrebbe pienamente adempire al proprio compito se non avesse il supporto e la collaborazione e questo non avrebbe neanche senso.

Questi progetti hanno un valore aggiunto poiché possono contribuire anche nella fase di accompagnamento verso l’esterno. Sappiamo che le persone che hanno partecipato in carcere al progetto di Compagnia Lyria, ma questo vale anche per altri progetti, poi, una volta terminata la pena e uscite dal carcere, sono rimaste all’interno dell’esperienza. In alcuni casi i detenuti sono entrati come operatori di quelle realtà associative accostate in carcere.

Questa è la ricaduta nella vita di esperienze svolte all’interno dell’istituto penitenziario. Scoprire di poter superare certi limiti che il soggetto stesso, talvolta, si pone. Prendere consapevolezza delle proprie risorse cercando di offrire loro una espressione possibile non solo nello specifico della danza, per esempio, ma nella quotidianità. Molte persone hanno utilizzato le competenze che hanno acquisito durante l’esperienza misurandosi con quanto significa uscire dal carcere e riprendere una vita quotidiana. Una ricaduta reale.

Una metafora per dire del progetto danza

La danza non è un esercizio.
E’ uno stato dell’anima che esce attraverso il movimento.
(Antonio Gades)

Una farfalla. Perché il primo spettacolo aveva a che fare con il volo. La farfalla nasce dal bruco e quindi è una trasformazione in sé e la speranza verso un dopo, tutto ancora può iniziare. La farfalla è leggerezza, la possibilità di andare oltre, spiccare il volo. Restituire la bellezza che il bruco aveva in sé.

Trasformazione. In fondo la vita ci chiama a questo. Un percorso che va agito ogni giorno; un cammino, guardare avanti, proseguire. Tutti noi ogni giorno ci ripetiamo queste parole. I detenuti sono persone, con storie umane legate alla propria esistenza, esperienza, vissuto, ambiente. Persone che in alcuni casi non sono riuscite ad esprimere la propria soggettività nella pienezza. Tante volte mi sono chiesta come in certe condizioni, io, che tipo di strada avrei percorso. Questo non vuole essere giustificativo, piuttosto uno stimolo ulteriore per riprendersi le proprie forze e proseguire. L’unica cosa da fare, nel ruolo che rivesto è quella di non giudicare. Ci sono persone che lo fanno in quanto rivestono un ruolo specifico; nella struttura carceraria invece è necessaria tutt’altra attività e approccio. I detenuti sono persone che sono state giudicate, che sono anche giudicate durante e spesso, purtroppo, anche dopo il periodo nella struttura. Pertanto far leva sulla cultura è di fondamentale importanza per modificare lo sguardo sociale.

Infine la cura

La cura nei confronti di un’organizzazione come il carcere e della sua popolazione è responsabilità. Responsabilità nei confronti dei percorsi delle singole persone, dei loro esiti. Talvolta ho sentito nascere in me l’interrogazione sulla efficacia di una via intrapresa nei confronti delle situazioni con le quali mi sono confrontata nel corso degli anni lavorativi. Mi sono trovata anche a mettermi in discussione, cosa che non mi è estranea anche nella vita privata, guidata sia da un atteggiamento e sensibilità della ragione ma insieme con la passione necessaria per poter svolgere questo mio lavoro. Senza la passione non lo si può sostenere. Confrontarsi mano a mano con le difficoltà, senza abbandonare quel sentimento, ha significato mettere a frutto il fiore delle esperienze.

 

Anno 2021 | Progetto Verziano 11^ edizione
Raccoglitrice di storie: Ludovica Danieli

Circolo di scrittura e cultura autobiografica di Brescia
LUA Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari

La rubrica Sguardi attraverso è creata nell’ambito del Progetto Verziano 11^ edizione, realizzato da Compagnia Lyria e Ministero di Giustizia Casa di Reclusione Verziano Brescia, grazie al contributo di Comune di Brescia, Provincia di Brescia, Fondazione Comunità Bresciana, Ordine degli Avvocati di Brescia, Centrale del Latte di Brescia e in collaborazione con LABA Libera Accademia Belle Arti, LUA Libera Università Anghiari-Circolo di Brescia, Palazzo Caprioli, APS Libertà@Progresso e Istituto Lunardi. Gode del patrocinio di Fondazione ASM, AIIMF Associazione Italiana Insegnanti Metodo Feldenkrais e Consigliera di Parità della Provincia di Brescia.

Sguardi attraverso | Testimonianza di un libero cittadino

La ricchezza della diversità

Ho 44 anni e oramai sono quasi 22 anni che sono educatore in un centro diurno per ragazzi disabili. Tramite questo, sono nate poi tutte le varie passioni che sto portando avanti, tra cui questa della danza. Nel 2011 Giulia Gussago aveva tenuto un laboratorio di danza rivolto a ragazzi disabili; il progetto si chiamava “Danzabile”. Lei cerca di fare danzare chiunque e tramite un’associazione di Cremona che io allora frequentavo, l’abbiamo contattata ed è venuta nel centro dove lavoravo. Lì c’è stato il contatto e lì ha iniziato a parlarmi di danza. Ho portato poi la danza anche nei laboratori che faccio dove lavoro.

Contemporaneamente Giulia, che è curiosa di portare il movimento in qualsiasi posto, aveva iniziato a chiedere la disponibilità da parte del carcere di Verziano.
È nato così il Progetto Verziano.
Il primo step è stato da ottobre a dicembre ed era aperto solo alla popolazione femminile del carcere. Non avrei potuto parteciparvi attivamente. A dicembre, dopo soli 2 mesi, Giulia è riuscita a mettere in piedi uno spettacolo bellissimo, articolatissimo, non mi spiego ancora oggi come hanno fatto. Sono potuto entrare come spettatore insieme ad alcuni allievi di Compagnia Lyria.
Durante lo spettacolo, eravamo seduti sul bordo della palestra. Quello che mi aveva colpito era che queste detenute sembravano veramente performers esperte. Con cose da nulla erano riuscite a trasformare veramente quel luogo in tutt’altro. Avevano lavorato tanto anche con la voce, perché quei due mesi Giulia aveva usato vari mezzi, danza, scrittura, c’era un attore e un maestro di canto.
Di tutto quel primo ingresso, il ricordo più vivido è stata l’uscita più che l’entrata in carcere.
L’istante in cui ho rivarcato la soglia in senso opposto mi ha dato questa riflessione ”Mi hanno regalato questa cosa potentissima, bellissima…e adesso io me ne esco –anche se so che se loro sono lì c’è un motivo-“, quasi mi pesava la mia maggiore libertà. Io credo molto all’obiettivo del Progetto Verziano che con l’arte e la bellezza in carcere si può facilitare la rieducazione.

Da gennaio anche la popolazione maschile ha potuto entrare e partecipare attivamente al laboratorio.
Per la prima volta c’è stata l’esperienza dell’attesa che i vari cancelli nel percorso venissero aperti. Il ricordo è il suono forte della chiusura di queste grosse sbarre che si chiudevano dietro di me.

Già dal primo anno Giulia, in un istante ci ha fatto buttare nel lavoro, giocare con il movimento, nel costruire il gruppo; eravamo lì, insieme, perché insieme facevamo questo laboratorio, il cui traguardo era lo spettacolo di giugno che avremmo portato fuori. Per le detenute era anche la possibilità di uscire, uno stimolo forte per partecipare.
Il momento in cui effettivamente siamo usciti per lo spettacolo siamo andati in Castello, una cornice bellissima. Mi ricordo l’impatto di vedere tutto quello che comporta portare fuori le detenute. E’ stato potente. E’ arrivato il cellulare della Polizia Penitenziaria, poi le guardie che facevano muro attorno alle detenute; prima hanno guardato che in quella specie di casupola dove c’è la locomotiva non ci fosse uscita, quindi le hanno portate dentro una a una. Se una detenuta doveva andare in bagno, doveva chiederlo alla guardia e la scortavano in due aspettando fuori dalla porta. Alla fine dello spettacolo, il tempo che finisse l’ultimo applauso, forse era ancora nell’aria, tutte le guardie hanno fatto andare le detenute contro il muro dove noi avevamo danzato e si sono messe in cerchio attorno a loro. C’è stato poi un momento per salutarsi bene: le hanno riaccompagnate, abbiamo mangiato qualcosa insieme, ci siamo salutati. Tutto in fretta, perché sono da rispettare orari di rientro.

Da alcuni anni, chi tra i detenuti è in una determinata condizione giuridica, in base all’articolo 21 dell’Ordinamento Penitenziario, può anche uscire dal carcere in autonomia per lavoro o attività autorizzate rispettando determinate fasce orarie. Poi deve ripresentarsi. Alle volte alcuni di questi detenuti sono venuti a danzare nello studio esterno con noi.

Anche nel modo di intendere la danza di Giulia c’è stata un’evoluzione in questi 10 anni di Verziano.
All’inizio c’erano più momenti coreografici costruiti minuto per minuto in base a una musica stabilita. Avevamo momenti precisissimi, poi negli anni successivi è stato sempre più un lavoro di ricerca, staccandoci gradatamente dalla coreografia.
Ci dava dei temi, oppure scambi tra scrittura e movimento, perché negli ultimi anni, è entrata nei laboratori anche la scrittura, creando momenti di ricerca, in cui si parte, si buttano lì tante cose, poi si individua quello che potrebbe essere un nucleo, un tema che ci è caro per quell’anno. Una volta che lo si è individuato, si cerca di seguire il desiderio che ti porta a muovere; cose molto libere, quindi. Giulia ci ha spinto molto nella ricerca, nel togliere e lasciare le cose semplici: ci ha spinto a giocare nell’immobilità, nel camminare.

Fino a 10 anni fa io mai avrei pensato di danzare. Ero incuriosito perché andavo sempre a vedere gli spettacoli di Giulia, però non avevo mai pensato che potessi praticarla. Stare in forme d’arte mi piace, perché ha a che fare con la bellezza, mi mette in comunicazione con la bellezza, cerca di fare vedere la bellezza; non saprei dirlo meglio.

Nel laboratorio di ieri a Palazzo Caprioli, con Giulia e Domenico Franchi, artista visivo, dovevamo portare due o tre oggetti, semplicissimi, comuni, che abbiamo in casa, in cucina, per esempio il forchettone di legno, lo scolapasta; più un oggetto al quale siamo affezionati; io ho portato un piccolo cuscinetto che ha ricamato mia mamma. Alla fine ci ha fatto utilizzare questi oggetti fondamentalmente per quello che non sono. Prima siamo stati sull’osservazione delle forme e, immaginando altri usi, cercando ispirazione di movimenti del corpo. Alla fine questi oggetti li abbiamo usati per delimitare perimetri di spazio in cui muoverci, in cui entrare in relazione con l’altro, sempre con le distanze fisiche imposte da questo particolare periodo, immaginandosi che l’oggetto fosse tutt’altro.

Non sempre usiamo materiale. A volte basta il movimento puro e semplice del nostro corpo.

Il Progetto Verziano ci ha portato a godere della diversità di ognuno di noi. Per i primi cinque, sei anni ero lì per godere insieme a tutti dello scoprire come ci siano mille modi per fare lo stesso gesto, come io giro intorno ai miei gesti, vedo un altro che ha un suo modo di muoversi. Un arricchimento. Godere della bellezza della diversità, indipendentemente dalla storia delle persone. Eravamo tutti insieme, non c’entrava che io fossi un esterno e qualcuno un detenuto. Eravamo un gruppo.

Questa danza, è una danza che unisce. Devi partire da te. La cosa che funziona è quando tu usi tutto il bagaglio di movimento per entrare in relazione con l’altro.

Tieni conto che poi io sono super timido. Passare però, attraverso il movimento del corpo, è un linguaggio che mi appartiene di più. Avrei fatto più fatica usando la parola; infatti nei momenti nei quali dovevamo metterci uno di fronte all’altro e parlare, ero in difficoltà. Comunque tutti i primi momenti del laboratorio, anche quando erano invitati altri maestri, sono stati dedicati a costruire il gruppo. Le prime volte dell’inizio anno, c’era qualcuno che conoscevi già, altri erano nuovi.

Con i detenuti è più difficile avere un lavoro continuativo. Eppure molti, una volta tornati liberi cittadini, hanno voluto essere parte della Compagnia, danzare ancora.

La cosa che ho incontrato in maniera potentissima, che mi invoglia costantemente a esserci ancora, è quello che io sintetizzo con la “ricchezza della diversità “. Mi piace da morire vedere i mille modi di ognuno di fare lo stesso gesto. Questo lo associo direttamente alla danza, ma è anche la ricchezza della diversità in generale, vedere mondi diversi. C’erano detenuti italiani, ma anche di altre culture. Sono rimasto affascinato da un ragazzo senegalese che è stato con noi due anni fa. Era una montagna umana, grosso sette volte me; faceva movimenti minimali ispirati, secondo me, a danze tribali africane. Non c’era niente di troppo, era quello che doveva essere. Ogni movimento che faceva, lo faceva perché era necessario.
Era bello anche perché lui aveva questa mole, era massiccissimo, ma faceva cose che non ti aspettavi con quell’agilità!

Mi ricordo una scena meravigliosa di lui, un altro dei ricordi indelebili di Verziano: a giugno stavamo provando uno spettacolo nel campo di calcio del carcere; era di sabato pomeriggio quando ci sono i colloqui con i famigliari. Il ragazzo senegalese ha dovuto salutarci perché erano arrivati sua moglie e suo figlio che avrà avuto non più di 5 anni e il colloquio si svolgeva in una specie di parco giochi, vicino al campo di calcio, dove i detenuti possono stare insieme ai loro bimbi. Una scena meravigliosa, io li vedevo da lontano. Il bambino evidentemente voleva giocare a nascondino con il papà. In questo piccolo spazio giochi c’è uno scivolo e una specie di alberello con il tronco largo 10 cm di diametro. Vedo il bimbo che sta contando e il papà “nascosto” dietro questa pianta; il bambino si gira e va a cercare il papà. Quell’immagine mi si è stampata nella mente.

L’esperienza “Verziano” ha prodotto in me cambiamenti a livello della danza. Ma una cosa che in più ho sicuramente notato è che prima sentivo moltissimo l’influsso del giudizio, ma non quello degli altri, il mio, cioè avevo un autogiudizio esagerato, per cui a volte stavo lì a misurare, a pensare:”ma questa cosa la faccio? Mi abbandono o meno?”; soprattutto all’inizio. Sì, ero molto autogiudicante. Ora si è molto smussato. Non dico che non c’è più, perché non sarebbe vero, ma sempre di più adesso mi permetto di “stare”.
Un’altra cosa che mi ha fatto crescere sia dal punto di vista della danza e quindi proprio del rapporto stretto con il movimento, ma direi come pensiero più generale, è questa idea del togliere, ridurre. Mi riempivo di mille cose. Stare in quello che davvero per me è essenziale. Togliere tutto quello che è solo peso. L’essermi dovuto ri/immaginare completamente mi piace moltissimo.
Adesso apprezzo il dovermi pensare in altri modi rispetto alle varie situazioni.

Mi viene chiesto: “L’arte come la danza, la parola scritta: in che modo e se, ti sei sentito, ti senti parte di un’opera artistica?”
Sì, secondo me siamo dentro un percorso artistico, perché è sempre tutto quello che poi abbiamo portato in scena, che, ripeto, non era l’unica cosa che contasse. E’ importante anche quello, però tutto quello che è nato, è nato da un processo creativo che arrivava da tutti. Giulia ci aiutava a mettere a fuoco degli stimoli passando dalla scrittura al movimento, tutto quello che è uscito è stato frutto dell’unione della creatività di ognuno di noi, di ogni partecipante al gruppo. Credo che in questo senso fossimo dentro un percorso artistico. Sono sempre stati processi di ricerca che cercavano di alimentare la creatività di ognuno e del gruppo. Quindi le cose che nascevano, prendevano forma istante per istante, attraverso la scrittura, la musica, il movimento. Penso che questo abbia a che fare con l’arte.

 

Anno 2020 | Progetto Verziano 10^ edizione
Raccoglitrice di storie: Monica Bertelli

Circolo di scrittura e cultura autobiografica di Brescia
LUA Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari

La rubrica Sguardi attraverso è creata nell’ambito del Progetto Verziano 11^ edizione, realizzato da Compagnia Lyria e Ministero di Giustizia Casa di Reclusione Verziano Brescia, grazie al contributo di Comune di Brescia, Provincia di Brescia, Fondazione Comunità Bresciana, Ordine degli Avvocati di Brescia, Centrale del Latte di Brescia e in collaborazione con LABA Libera Accademia Belle Arti, LUA Libera Università Anghiari-Circolo di Brescia, Palazzo Caprioli, APS Libertà@Progresso e Istituto Lunardi. Gode del patrocinio di Fondazione ASM, AIIMF Associazione Italiana Insegnanti Metodo Feldenkrais e Consigliera di Parità della Provincia di Brescia.

Sguardi Attraverso | Testimonianza di una ex detenuta

Con la danza per mano cammino nella vita

Tutto è iniziato con un incontro.
Giulia Gussago è venuta a Verziano, dove io ero a quel tempo, come tutti sapete, e ha proposto la partecipazione a un laboratorio di danza.
All’inizio sembrava un gioco, l’ho presa con leggerezza, ma poi, mano a mano che le sedute procedevano, che si facevano prove e si lavorava insieme, ho capito il senso del progetto e ho valutato l’importanza che esso aveva, in sé e nella mia vita.
Quando la mia reclusione a Verziano è finita, e sono uscita, ho voluto di mia spontanea volontà continuare a partecipare al progetto, da persona libera. E ancora continuo.
Ho imparato tanto.
Prima di tutto il valore della libertà. Ho sperimentato la libertà.
Ho vissuto poi il valore dell’accoglienza. Sono stata accolta a braccia aperte da tutte le persone che partecipavano al progetto e ho capito la possibilità dell’accoglienza da parte della società e quanto ciò dipendesse dalla mia volontà di essere accolta.
Inoltre ho sentito quanto fosse importante l’imparare, perché ogni volta che venivo a far parte del lavoro del progetto, acquisivo qualcosa di importante per me, per la mia vita.

Il mio “sì” alla proposta di Giulia Gussago è stato carico di entusiasmo, perché pensavo che la musica e la danza non potevano che rendere più bello un ambiente grigio e triste qual è il carcere.
Certo, prima di iniziare non potevo sapere che la danza proposta nel laboratorio fosse così liberatoria e coinvolgente. Conoscevo altri tipi di danza, quella delle discoteche, quella classica, quella contemporanea, ma fui sorpresa quando sperimentai la danza come libera espressione.
Le tre ore che passavamo nelle sedute del progetto erano ricche di gioco, di riflessioni, di impegno, di divertimento autentico e di apprendimento. Era bellissimo, bellissimo, bellissimo.

Quando sei “dentro”, quando vivi l’esperienza della reclusione, e incontri persone che vengono da “fuori” a lavorare con te, senti arrivare l’aria della libertà e pensi allora che sì, è possibile tornare liberi, che bisogna tener duro, non mollare.
L’aiuto morale che ricevi è decisamente significativo: per te che aspiri alla libertà, alla possibilità di riprendere in mano la tua vita, partecipare a questo progetto ha un grande valore simbolico.
Ogni volta che salivo nella palestra dove danzavamo, significava un passo in più verso la libertà.
Nella prima edizione del progetto, per esempio, ci hanno dato un rotolo di carta di 30 metri sul quale dovevamo disegnare tutto quello che ci passava per la mente e…lasciare emergere tutto ciò che si sentiva che mancava nella vita da reclusa. È stato molto importante perché mentre sceglievo cosa disegnare e davo forma ai miei disegni, alle mie parole, prendevo consapevolezza dell’importanza che avevano per me la libertà, la famiglia, i figli, e tanto altro.
L’emozione che provi, poi, quando il tuo lavoro viene condiviso e diventa uno spettacolo è talmente intensa e inattesa che gli applausi e i complimenti che ricevi dal pubblico risuonano dentro di te come se avessero dell’incredibile.
“Siete state brave, bravissime!”
E senti che gli spettatori lo dicono, non per convenzione, ma perché hanno vissuto con te ogni attimo dello spettacolo, ogni gesto della tua danza, ogni scena rappresentata.
E’ stato fantastico, meraviglioso.
Rivivo ancora oggi, dentro di me, quei momenti, con la medesima emozione.
La scoperta di aspetti di sé, che erano rimasti nascosti fino ad allora e che sulla scena avevano invece la possibilità di essere espressi, ha avuto un’importanza fondamentale nella conoscenza della mia personalità e delle mie potenzialità.
Questo vale per me e per tutte le altre ragazze che hanno partecipato con me alla danza.
Certo, per aderire alla proposta di Compagnia Lyria era necessario avere coraggio, rischiare anche l’insuccesso, le critiche dei compagni di reclusione, ma poi, davanti a tanti applausi e alla bellezza di quanto abbiamo portato in scena, provavo tanta soddisfazione e gratificazione per l’impegno profuso.
La fatica, la paura, la tensione, sparivano per dare spazio ad una grande gioia.

Altro aspetto qualificante del Progetto Verziano è stata la sua progressiva apertura su diversi fronti. Nel primo anno eravamo solo ragazze, poi invece è stata aperta anche ai ragazzi la possibilità di partecipare.
Un’apertura coraggiosa che ha cambiato il nostro stare insieme, nel laboratorio e sulla scena.
Inoltre, lo spettacolo inizialmente veniva rappresentato davanti ad un pubblico composto da detenuti e dal personale carcerario, ma progressivamente è stato portato davanti a platee nelle quali erano presenti anche persone che venivano da fuori, persone libere, e questo è stato un valore aggiunto molto importante.

Quando poi io stessa sono tornata ad essere una persona libera, cioè ero fuori da Verziano, ho voluto continuare a partecipare al Progetto di danza ed ho fatto richiesta alla dott.ssa Lucrezi di poter proseguire l’esperienza, anche da esterna.
Ero felice, felice, quando ho saputo che la mia richiesta era stata accettata!

Vivere una esperienza di libertà quando sei “dentro” significa molto.
La vita nel carcere è regolata da obblighi.
Nel laboratorio di danza sperimenti la libertà di essere ciò che sei: puoi
urlare,
cantare,
ridere,
piangere,
perchè attraverso la libertà del gesto e del movimento metti in armonia il tuo essere interiore con la sua manifestazione esteriore. La danza unisce perché si crea un contatto emotivo che ti dà tanta gioia, tanta felicità.
Senti la persona che si muove accanto a te e entri in una modalità di comunicazione empatica che è più profonda di quanto possa essere quella fatta con le parole.
È difficile raccontare ciò che succede in un laboratorio di danza, ciò che succedeva nel corso degli incontri, così come è difficile esprimere verbalmente tutto ciò che questo progetto dà a chi lo vive in prima persona.
È l’arte in sé a creare legami, la danza in sé.

Certo non mi aspettavo di fare queste scoperte, perché inizialmente mi rifacevo ad esperienze già vissute di balletto, di musica classica… Invece…è stato tutto diverso, molto più impegnativo ed emotivamente coinvolgente.
Ogni incontro aveva un suo sviluppo creativo e le proposte spaziavano dal movimento alla scrittura, dal disegno al colore, dal teatro alla danza, e così via.
Una volta Giulia ha proposto delle poesie. Le due “haiku” su cui dovevamo lavorare sono state illuminanti: bellezza e silenzio.
Non poteva scegliere meglio. Per me erano il massimo.
Da lì è partito tutto.
Nel corso del laboratorio mi è stato chiesto di descrivere la BELLEZZA.
La bellezza per me è tutto. La sincerità, la bellezza interiore, questo è.
Tutti pensano all’esteriorità, nessuno pensa all’interiorità, ma è l’aspetto più importante della persona.
Molti vivono in questa epoca senza darsi il tempo di pensare cosa sia la bellezza, ma…se ci pensiamo bene, alla fine come rispondiamo alla domanda: “Che cos’è la bellezza interiore?”
È l’anima della persona, il suo concetto del vivere. L’essenza.
Nel primo spettacolo ho anche recitato quanto avevo scritto, ho dovuto memorizzarlo e poi esporlo davanti alla platea e l’emozione che ho provato è indescrivibile.

Mi è stato chiesto poi di descrivere il SILENZIO.
Il silenzio. Il silenzio è una bellezza tacita.
Aiuta a meditare. E’ sempre collegato alla bellezza perché quando sei sveglio di notte e tutto intorno a te tace e non si sente alcun rumore, tu vivi una esperienza di bellezza che ti aiuta a vedere con gli occhi della mente e pensi.
Pensi a quello che hai passato nel corso della giornata, per esempio, pensi e ripensi al tuo passato, al tuo futuro.
È un silenzio bello, alla fine.
Non è un silenzio angosciante.

Il percorso personale che ho maturato nel corso del progetto è stato impegnativo, oltre ogni aspettativa.
Siamo partiti con un gruppo di persone, inizialmente solo donne, ma poi, di anno in anno, il progetto ha assunto dimensioni sempre più grandi, sia includendo tra i partecipanti gli uomini prima e le persone esterne poi, sia diventando sempre più complesso nella elaborazione dei temi e nelle modalità.

L’essenza del progetto non è cambiata, si è mantenuta fedele ai principi che l’hanno ispirata, però la sua realizzazione ha trovato sempre nuovi temi, nuove musiche, coreografie e palcoscenici diversi. E così, ogni anno, anche l’emozione era diversa e imparavo nuove cose.
Voglio ringraziare la Compagnia Lyria e tutte le persone che hanno aiutato nella realizzazione del progetto, che l’hanno reso possibile: a Direttrice del carcere, dott.ssa Lucrezi, la Presidente del Tribunale di sorveglianza, dott.ssa Lazzaroni, l’educatrice Silvia Frassine e tanti altri.

L’essenza del progetto è difficile da definire. Ciò che so è che coinvolge totalmente, cambia la persona e nel mio caso il cambiamento è stato decisivo.
Quando sono uscita dal carcere, finalmente libera, mi sono posta la domanda:
“E allora, io sono fuori. Cosa faccio?”
E così ho cominciato a pensare, a ricordare ciò che avevo vissuto nel progetto, ciò che ero riuscita a fare.
E mi sono detta: “Io ho coraggio, prendo la mia strada e vado avanti” e sono andata avanti.
E così ho scoperto che il mio coraggio, quello che mi ha permesso di non tirarmi indietro, né davanti al riconoscere gli errori del passato, né davanti alla proposta di un progetto nuovo e diverso come quello della danza, mi permette ora di andare avanti nella vita con la testa alta.
Ho detto a me stessa: “Sì, ho sbagliato, però mi potete guardare come una persona normale.
Io respiro, penso, vivo come tutti gli altri.”
Come avevo sperimentato nella danza la forza del coraggio, così la sperimento nella mia nuova vita.
La danza è per tutti. Non importa se sei un ex-detenuto, non importa se hai una malattia, se sei disabile… la danza è per tutti.
Tutti siamo persone.
L’arte è una via che permette di comunicare questo valore.
Il valore della persona, di tutte le persone.
La creazione artistica nella danza ti fa sentire parte del mondo nel momento stesso in cui agisci, ti muovi con gli altri, crei con i tuoi gesti e i tuoi movimenti una scena, un tutto che ti appartiene e di cui sei parte.

Ricordo un lavoro fatto con la carta. Carta di colore bianco. Abbiamo fatto tutto con questa carta bianca, anche un cappotto che indossavo quando entravo in scena. Era bellissimo sentire il frusciare della carta nel silenzio totale della scena, sentivi anche il respiro di chi era vicino a te. Lascio immaginare l’effetto che faceva sugli spettatori la bellezza fantastica di quanto stavamo rappresentando.
Vedevo negli occhi di chi guardava la curiosità e la sorpresa di fronte a tanta bellezza.
“Ma cosa sono capaci di fare queste donne!”
Meravigliati di fronte allo spettacolo che stavamo realizzando. Increduli forse, ma estasiati.
E così, di anno in anno, di spettacolo in spettacolo, siamo arrivati alla decima edizione di questo fantastico progetto.
Una interruzione l’abbiamo avuta con la pandemia dovuta al Covid, ma con l’anima, con il cuore, con le lettere che ci siamo scritti, siamo riusciti a stare insieme.
INSIEME, si può fare tutto.
Certo, nella vita ci sono cose che puoi fare da solo, ma in questo progetto facciamo cose meravigliose, insieme.
Con l’aiuto di Giulia Gussago, la nostra coreografa, naturalmente. Lei fa tutto per noi e noi diamo il meglio di noi stesse.
Quando non ho potuto partecipare ai laboratori di danza per motivi di salute, ho fatto in modo di essere sempre presente agli spettacoli che venivano rappresentati alla fine dei laboratori e ogni volta provavo ammirazione per il lavoro fatto e un grande dispiacere per la mia mancata partecipazione. Mi rendevo conto di aver perso qualcosa di bello e di importante, mi mancava la soddisfazione di aver svolto un lavoro fantastico insieme.
Quando raggiungi la conclusione del percorso e presenti al pubblico l’opera d’arte collettiva cui hai partecipato provi emozioni inimmaginabili e indescrivibili: sai che sei guardata da tutte le parti e devi dare il meglio di te.

Quando poi sono uscita dal carcere e ho partecipato a due rappresentazioni, una al Castello di Brescia e una presso la Facoltà di Giurisprudenza, ho percepito nettamente la differenza tra “essere dentro” ed “essere fuori”.
Io ero una persona libera, potevo lasciare la compagnia alla fine dello spettacolo e tornarmene a casa in auto, guidando nella notte lungo le vie che scendevano dal colle Cidneo.
Le mie compagne no. Le guardavo salire sul pullman che le riportava in carcere e provavo tristezza e amarezza per questo. Mi faceva star male il pensiero di non poter aiutare le ragazze, le persone con le quali avevo condiviso un pezzo di strada in una istituzione come il carcere.
Cercavo di incoraggiarle dicendo loro che dovevano tener duro, che sarebbe arrivato anche per loro, prima o poi, il giorno dell’uscita.
Non mollare! Mai! Questa è la cosa più importante.
Bisogna avere il coraggio di riprendere da zero, tutto. O meglio: bisogna riprendere da dove si è staccato il filo e da lì ricominciare.
Si può fare. Lo dico per la mia esperienza. Sono una testimone di questa possibilità e ho la dignità di affermare che, anche se ho sbagliato, ho diritto di vivere, di andare avanti.
Da quando sono uscita ho avuto il coraggio di fare cose importanti: ho frequentato il “Corso di soccorritore” in Croce Bianca ed ho superato l’esame finale.

Questo passo importante nella mia vita è stato ispirato dal Progetto Verziano, perché ho capito quanto sia essenziale dare aiuto alle persone deboli.
Noi eravamo persone deboli, perché eravamo “chiuse“. La proposta del progetto è arrivata dentro al carcere e, attraverso la danza, ci ha dato aiuto.
Ci ha sollevato il morale, ci ha dato la possibilità di sperare, di sognare anche, di aver la forza di percorrere la propria strada.
Ecco perché non potrò mai dimenticare ogni singolo momento del progetto, né vorrò lasciarlo.
Ho imparato molto e ogni anno imparo qualcosa di nuovo.
La danza mi accompagna e mi dà la forza di non mollare.

Forse nemmeno Giulia immaginava quale sviluppo travolgente avrebbe avuto il Progetto Verziano.
Man mano che il progetto si sviluppava si chiariva sempre di più anche il senso che esso aveva per me, per noi. Si trattava di portare avanti un lavoro di riabilitazione morale che passava attraverso la danza e conduceva alla consapevolezza della propria dignità di persona.
Io sono un testimone vivo di un cammino verso la presa in carico della propria vita, fatto con coraggio e forza di volontà.

Altro punto importante: abbiamo raccolto in un libro le impressioni, le sensazioni, i pensieri che venivano sollecitati in ciascuna di noi dalla danza e dalla esperienza del laboratorio: è un libro a cui tengo molto, diciamo che è “il libro del mio cuore”. E’ un dono prezioso che ciascuno di noi può portare con sé, per tutta la vita.

Ci sono stati momenti d’incanto.
Una sera, al Castello di Brescia, all’aperto, ho partecipato allo spettacolo che concludeva il progetto dell’anno.
Tutto era bello: lo spettacolo, le luci, l’atmosfera magica e affascinante che si veniva a creare, l’aria della sera.
Oltre a danzare, io recitavo dei paragrafi.
E quando dissi: “Adesso fermati, respira e soffia”… caddero le luci, buio, solo il cielo e le stelle.
Poi le luci si riaccesero e…l’applauso del pubblico esplose con fragore.
E’ stato un momento magico, indimenticabile!
E devo dire che ho tanti ricordi stupendi, davvero. Di momenti irripetibili, significativi, importanti e belli ne ho vissuti tanti con questo progetto. Non c’è momento del percorso fatto che io non voglia ricordare. Anzi, conservo in me ogni momento, ogni insegnamento.
Mi fa da guida.
Ecco perché voglio ringraziare tutti, tutti, tutti.
Tutti coloro che ci aiutano a portare avanti questo lungo viaggio e in particolare Giulia Gussago e la Compagnia Lyria.
È tutto un insieme di anime, di persone meravigliose che ci stanno accanto, sempre.

*Per ragioni di privacy il nome Daniela è di fantasia

 

Anno 2020 | Progetto Verziano 10^ edizione
Raccoglitrice di storie: Piera Milini

Circolo di scrittura e cultura autobiografica di Brescia
LUA Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari

La rubrica Sguardi attraverso è creata nell’ambito del Progetto Verziano 11^ edizione, realizzato da Compagnia Lyria e Ministero di Giustizia Casa di Reclusione Verziano Brescia, grazie al contributo di Comune di Brescia, Provincia di Brescia, Fondazione Comunità Bresciana, Ordine degli Avvocati di Brescia, Centrale del Latte di Brescia e in collaborazione con LABA Libera Accademia Belle Arti, LUA Libera Università Anghiari-Circolo di Brescia, Palazzo Caprioli, APS Libertà@Progresso e Istituto Lunardi. Gode del patrocinio di Fondazione ASM, AIIMF Associazione Italiana Insegnanti Metodo Feldenkrais e Consigliera di Parità della Provincia di Brescia.